Filosofia

Il mondo di Hegel

8 Aprile 2024

Ho finito di leggere Il mondo di Hegel di Jürgen Kaube (Einaudi 2023). Una maratona la lettura (512 pagine a stampa, e 678 in ebook) non sempre agevole, ma illuminante e una buona ragione per riprendere contatto con il filosofo che tento di afferrare  fin da giovane.

Hegel mi ha sempre interessato fin dai tempi universitari e dal corso sugli Scritti teologici giovanili. Sono un meridionale di scuola idealista che vive immerso in un mondo, quello milanese, fattualmente empirista. Non mi faccio mancare attriti e risonanze. Ancora non ho capito secondo quale verso prendere il mondo. Proviamo con Hegel mi sono detto tantissimi anni fa, forse sbagliando. Non chiedetemi una “recinzione”, sennata e coordinata nella forma, di questo lavoro di Jürgen Kaube, da parte sua non un filosofo ma un giornalista, vicedirettore della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (concepisco la recensione come una recinzione, recingere, contornare un testo con un altro testo). Di seguito i miei appunti spettinati man mano che leggevo, integrati con altri  provenienti da altre letture.

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Una definizione nitida dell’idealismo
«Chi legge gli scritti di Hegel non si sentirà mai sicuro di averne compreso del tutto e in ogni singola frase il senso. Al tempo stesso, però, non nasce mai il sospetto motivato che l’autore si serva della lingua per nascondere di non avere niente da dire, oppure che stia giocando con il lettore» premette con simpatica acutezza Jürgen Kaube.

Premessa a cui fa seguire una definizione nitida di che cos’è l’idealismo, ovvero il sistema filosofico dentro cui si muove Hegel, che egli porta a maturazione, e in un certo senso distrugge rompendone la forma col portarne a maturazione tutti i contenuti. Spiega Kaube con parole didattiche e chiare. L’uomo è immerso in stati-di-cose, natura, oggetti, che esperisce coi sensi e l’esperienza. Ora, non tutto, nel processo conoscitivo ci viene dal mondo esterno. Ci sono cose che non possiamo vedere, sono processi mentali e realtà che stanno dentro il soggetto conoscente. Non tutto promana da fuori, dal mondo esterno, empirico, dunque. Come ci si deve comportare si chiedono gli idealisti, a partire da Kant che fu il primo ad adottare questo termine, con gli «oggetti» che non abbiamo già trovato e non abbiamo prodotto? Questi «oggetti» che non promanano dal mondo esterno e dall’esperienza, sono l’anima che si pretende immortale, Dio di cui si nega o afferma l’esistenza, il tempo, la causalità, la coscienza, l’autocoscienza, lo spirito, la libertà, in una parola l’Io, e l’Idea (donde idealismo) che egli si fa del mondo esteriore e interiore.

Nell’approccio dei filosofi tedeschi che vanno da Kant a Hegel «il mondo viene dunque capovolto in senso idealistico perché in quello che produciamo, ma anche nell’analisi degli oggetti empirici – come per esempio l’acqua –, rientra tutta una serie di concetti che di per sé non sono empirici. E questo vale non da ultimo per lo stesso concetto di «esperienza». L’Idealismo implica, in altre parole, la possibilità di comprendere il mondo attraverso il pensiero, perché il mondo stesso ha «la forma del pensiero» ed è in gran parte prodotto da noi» fissa Kaube. L’idealismo tedesco con una bella immagine connessa ai primi voli delle mongolfiere che per la prima volta consentivano agli uomini di vedere il mondo dall’alto, fornisce a Kaube una più didattica definizione.

«Quello era idealismo: con l’ausilio di quasi nulla e di un pensiero – in quel caso, l’aria riscaldata produce spinta ascensionale – elevarsi a un’altezza che permetteva di osservare la Terra da una prospettiva fino a quel momento ignota, senza che fossero direttamente implicati motivi commerciali, politici o religiosi.»

La dialettica

Se abbordate questo libro nel tentativo di afferrare per sempre come funziona la famosa dialettica hegeliana, avete sbagliato libro. Kaube snobba la dialettica e il famoso/ famigerato procedere nel ragionamento per cascata di triadi: tesi, antitesi, sintesi. Scrive espressamente nelle pagine finali. «Tuttavia il pregiudizio che sia un pensatoure prevedibile, che si sistema il mondo sempre alla stessa maniera – tesi, antitesi, sintesi – qui non trova conferme». In effetti questo procedere triadico del pensiero dialettico era già in Fichte ma fu enucleato in maniera didattica da un allievo di Hegel che lo impose nella manualistica a seguire. Il nostro filosofo non lo esplicita in maniera nitida in un suo testo specifico, tuttavia nella sostanza sono queste le movenze del suo pensiero, oltre al fatto che se riaprite la sua Estetica (a cura di Nicolao Merker) troverete una cascata di “in primo luogo”, “in secondo luogo”, “in terzo luogo”. La logica dialettica prevede una affermazione o momento astratto intellettuale, una negazione o momento negativo razionale e una sintesi detta anche Aufhebung (che toglie e integra la negazione e che la mantiene in sé pur superandola o momento speculativo  positivo razionale. È ovvio che in questa visione il vero è l’intero, ossia la verità è un processo che non si chiude nella sintesi ma  mantiene le contraddizioni pur superandole dialetticamente nell’intero o totalità del percepito.

Kaube fa un esempio molto semplice ricorrendo a una delle figure dello stesso Hegel per spiegare la dialettica ovvero quella del servo-padrone, che adduce per alleggerire il tutto.

I bambini non vogliono il giocattolo di per sé, ma il giocattolo dell’altro. Il giocattolo che un altro desidera, infatti, mi conferma nel mio desiderio. È inevitabile che si arrivi a un contrasto che può esser risolto solo con una proibizione. La dialettica che si sviluppa da una dinamica conflittuale analoga fra adulti è la seguente: uno ha il coraggio di morire, l’altro ne ha paura, per cui il primo, che tiene piú alla propria autocoscienza che alla propria vita, diventa signore, mentre l’altro, piú legato alla propria autoconservazione, diventa servo.

Ma, mi si perdoni la divagazione solo apparente, per spiegare meglio come funziona esattamente la dialettica hegeliana non mi basta Kaube devo ricorrere a letture precedenti. A Lucio Colletti in questo caso.

Al di là del procedimento triadico o meno ciò che è da comprendere in essenza è il principio del funzionamento della dialettica hegeliana infatti.
Argomenta perciò Colletti citando La scienza della logica (Laterza 1924-25 vol II pp. 69-70) che per Hegel  <<tutte le cose sono contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi in confronto delle altre, la verità e l’essenza delle cose>>. E fin qui saremmo nell’argomento di Zenone di Elea. Solo che Hegel volge, secondo Colletti, questa proposizione ad altro significato quando egli  interpreta il movimento contraddittorio delle cose (qui è il cuore della sua dialettica) come unità di essere e non essere insieme, cioè  contraddizione nello stesso istante.  E così legge il passo successivo della Scienza della logica:

<<Persino l’esterior moto sensibile – scrive – non è che la sua [della contraddizione] esistenza immediata. Qualcosa si muove, non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui. Si debbon
concedere agli antichi dialettici le contraddizioni ch’essi rilevano nel moto, ma da ciò non segue che pertanto il moto non sia, sibbene anzi che il moto è la contraddizione stessa come esistente >>.

In altre parole, sciogliendo l’apparente formulazione astrusa hegeliana, le cose sono e non sono allo stesso istante per Hegel. Colletti ricorda con una certa tigna che questo assunto è sempre ricorrente nel pensiero di Hegel, gli è profondamente proprio, è il cuore della sua dialettica. E a tal proposito cita la fondamentale Aggiunta 1 al Paragrafo 81 della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.

«Tutto ciò che ci circonda – scrive Hegel- può essere considerato come un esempio della dialettica. Noi sappiamo che ogni finito, anziché essere un che di saldo e di definitivo, è mutevole e caduco, e ciò non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale il finito, come ciò che è in sé l’altro di se stesso, è sospinto al di là di ciò che è immediatamente e ribalta nel suo opposto. […]
Noi affermiamo che tutte le cose (cioè ogni finito in quanto tale) vanno alla lor fine, e consideriamo perciò la dialettica come quella potenza irresistibile universale dinanzi alla quale nulla può mantenersi, per saldo e sicuro che possa anche sembrare. [..] La dialettica, inoltre, dà prova di sé in tutti i campi e le sfere particolari del mondo naturale e spirituale. Così per esempio nel movimento dei corpi celesti. Un pianeta sta ora in questo luogo, ma esso è in sé di essere anche in un altro luogo, e porta questo suo esser altro all’esistenza col fatto di muoversi. Parimenti dialettici si dimostrano gli elementi fisici, la manifestazione della cui dialettica è il processo meteorologico. E appunto questa dialettica è il principio che sta alla base di tutti i restanti>>.

Qui si incentra l’analisi critica di  Colletti (che leggo in Tra marxismo e no), il quale individua in questo procedere della dialettica secondo Hegel la violazione del principio di non-contraddizione aristotelico, che è di fondamentale importanza in quanto è il principio fondativo della scienza sperimentale moderna. Secondo Colletti Hegel così argomentando confonde le “opposizioni reali” che sono in natura (es caldo e freddo,  polo positivo e negativo, ecc) che sono senza contraddizione con le “contraddizioni dialettiche” di cui si diceva sopra per le quali le cose sono e non sono nello stesso istante. Certo potrebbe questa affermazione hegeliana, che pure è il cuore della sua dialettica, lo abbiamo visto in quella Aggiunta 1 al Paragrafo 81 della grande Enciclopedia, essere una spiegazione scientifica a modo suo del moto delle cose,  della loro intima natura, ma  confligge con i postulati del principio di non contraddizione aristotelico e successivamente della scienza sperimentale galileiana, per il quale le cose o sono o non sono e non posso essere e non essere nello stesso istante come pretende Hegel. E con lui quei marxisti, soprattutto Engels (l’autore della Dialettica della natura), ma anche Lenin, Plechanov, Lukács, Mao  e tanti altri (p.136) e da noi Ludovico Geymonat (p. 112) che sulla scia di questo Hegel imboccheranno il vicolo cieco antiscientifico del materialismo dialettico fino al tragicomico capitolo di  Lisenko.  La contrapposizione tra logica formale (aristotelica) e logica dialettica (hegeliana e successivamente del materialismo dialettico) capovolgerà tragicamente i criteri di verità, perché a questo punto la logica aristotelica apparirebbe metafisica o astratta mentre la vera logica sarebbe quella hegeliana, che diventerebbe la logica del concreto o vera scienza. Una visione del mondo capovolta insomma.  È inutile a questo punto continuare con questa disamina, salvo rammentare che secondo Colletti:  <<Tutte le proposizioni principali del materialismo dialettico si trovano già formulate nell’opera di Hegel >> (p.13) il vero responsabile di questo capovolgimento,  aggiungendo perentoriamente, com’è logico che <<Non si fa scienza con la dialettica>> (p. 124 e p.149).  Ma per Colletti questa dialettica <<sta anche nel Capitale>> di Marx (p.149) l’opera data per scientifica in assoluto. E da lì sono cominciati tutti i suoi guai aggiunge egli ironicamente conoscendo il volume di fuoco dei marxisti che mezzo secolo fa erano una legione. [A chi capziosamente a questo punto menzionerà l’approdo a Forza Italia del filosofo ed ex marxista Colletti occorre ricordare che  forse doveva essere un PCI rinnovato ad accogliere il suo pensiero, e comunque la sua palinodia era già iniziata con il suo Il marxismo e Hegel del 1969 e con la celebre Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, del 1974, e che questo Tra marxismo e no, da cui cito, è  del 1979. Il filosofo Colletti da tempo aveva abbandonato il campo d’elezione mentale e spirituale in cui si era formato].

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Hegel di destra o di sinistra? 
Altra questione è quella del collocamento ideale di Hegel nel quadrante delle ideologie secondo i nostri schemi e logiche di schieramento tra progressisti o reazionari. In Italia non facciamo altro. Hegel pendeva più a destra che a sinistra? Se Kaube ha facile gioco nel respingere l’interpretazione di uno Hegel precursore del nazionalsocialismo, rintuzzando in tal senso l’illazione di Karl Popper (La società aperta e i suoi nemici) con queste parole

rientra fra le mostruosità della storia delle idee che Hegel, a causa della sua frase sulla razionalità del reale, sia stato annoverato fra i pionieri del nazionalsocialismo, di cui era stato invece il suo acerrimo nemico filosofico, Jacob Fries, ad anticipare lo spirito, quando in un disgustoso trattato aveva preteso che in Germania si istituisse l’obbligo di un segno distintivo per gli ebrei,

più articolato e tortuoso è l’esatto inquadramento del filosofo rispetto al sospetto di essere stato un teorico dello Stato prussiano, il nucleo originario dell’autoritarismo teutonico. Kaube sostiene ellitticamente che «uno dei pochi studiosi che Hegel attacchi apertamente nel suo libro è l’inventore del concetto di ‘restaurazione’, Carl Ludwig von Haller».

Ci sono tre luoghi testuali ove il posizionamento  ideologico di Hegel è dibattuto da Kaube come da tutti gli studiosi di Hegel è cioè  i luoghi testuali più espliciti in materia: Lineamenti della Filosifia del diritto, La Costituzione del Würtenberg e il saggio sul Reform Bill inglese, ultimo suo scritto del 1831.

Secondo il mio De Ruggiero (Hegel Laterza 1974), in questi testi Hegel «si opponeva all’individualismo rivoluzionario francese [che aveva spezzato le gilde e le corporazioni] e voleva conservare l’organizzazione corporativa (cioè per Stände o ceti)». Quindi era un conservatore. Pensate che anche il fascismo italiano tentò il “corporativismo” e capirete cosa voleva dire De Ruggiero. Ma nello stesso tempo nella vicenda della Costituzione del Württemberg Hegel appoggia il sovrano. «Contro i reazionari più retrivi, egli voleva che la costruzione non fosse un contratto privato tra i ceti privilegiati e il sovrano, ma fosse una espressione dell’organizzazione pubblica e oggettiva dello stato e comprendesse in sé, invece di presupporre, i diritti dei ceti e delle corporazioni». Dunque era un liberale costituzionalista. Mentre per la questione del Reform Bill inglese del 1831 de Ruggiero scrive: «In esso, l’evoluzione del suo pensiero verso una forma di rigido conservatorismo politico si può dire compiuta. Egli riconosceva la necessità di una riforma della costituzione inglese, ma l’avrebbe voluta secondo un indirizzo opposto a quello verso cui si andava manifestamente orientando la coscienza politica del paese, e che fu poi sanzionato dalla riforma elettorale del 1832. Egli pensava che l’estensione del suffragio avrebbe aggravato la disgregazione politica già in corso. E, mentre nello scritto sulla costituzione del Württemberg aveva difeso, sia pure con molte riserve, il nuovo diritto contro l’antico, ora si poneva più decisamente dalla parte della tradizione storica contro l’astratta razionalità, della stratificazione dei tre ordini sociali (Stände) contro il criterio quantitativo, fondato sul numero e sul censo». Un conservatore non un reazionario insomma.

Sulla questione scrive Kaube in parte concordando con De Ruggiero:

« La sfera delle particolarità come poteva allora conciliarsi con quella della decisione generale, vincolante per tutti? Hegel non riteneva che la risposta a questa domanda potesse essere delegare la volontà degli atomi a deputati. Pensava piuttosto che l’individuo dovesse essere rappresentato non in quanto tale, un essere contingente e soggetto alle oscillazioni della propria soggettività, bensí quale membro di gruppi di interesse («corporazioni»). Come molti teorici della democrazia dopo di lui, non amava particolarmente l’esercizio del voto e non riusciva ad attribuire alcun significato politico alla mera espressione dell’opinione che vi riscontrava».

Non proprio una posizione progressista, se la si confronta con il portato della Rivoluzione francese che aveva spezzato i vecchi ordini mettendo il singolo davanti al mercato. Pensate per capire la questione che ancora oggi, secondo questa impostazione che è rimasta dai tempi del fascismo, per definirvi “giornalisti” dovete essere inquadrati in un “ordine” e sostenere degli esami per esservi ammessi. Cioè per informare ed esprimere i vostri pensieri avete bisogno della bollinatura di una corporazione con garanzia statale.

Kaube tende a trascinare Hegel nel quadrante dell‘ideologia liberale, aperto anche in tarda età alla fatale necessità del radicalismo rivoluzionario nell’aneddoto in cui Hegel nel 1820 invita gli astanti ad alzare il calice perché solo lui ricordava che quel giorno era il 14 luglio anniversario della Rivoluzione francese. Un omaggio forse esornativo rispetto agli entusiasmi giovanili, ma un segnale chiaro e coraggioso nello spirito codino dominante nelle Cancellerie e nei Senati accademici.

Certo comunque  è che, se dopo la sua morte si crearono le due correnti di una destra e una sinistra hegeliana, è senz’altro spia di una compresenza delle due inclinazioni intellettuali nel pensiero e nella personalità di Hegel, no?

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In tema, lo studioso francese Jacques D’Hondt [nei suoi lavori Hegel segreto tradotto da Guerini e Ass. e Hegel la sua biografia che ho consultato in francese in ebook) non crede che Hegel possa essere definito filosofo della Restaurazione (come Rudolph Heym lo definisce). Adduce un ragionamento: in Prussia non c’era stata una rivoluzione quindi non poteva esserci una Restaurazione, anche se un irrigidimento ci fu, e reca qualche prova: il fatto che Hegel nei Lineamenti della filosofia del diritto si scagli contro von Haller teorico lui sì della Restaurazione, fatto confermato da Kaube come abbiamo già visto. Poi c’è l’epistolario, un luogo non pubblico anche se non del tutto riservato come vedremo. Soprattutto le lettere a Niethammer in cui Hegel dice che con la morte di Napoleone (che definisce con termine greco traghikotaton, il massimo del tragico) ritornerà tutta la putredine di prima. Abbastanza convincente, no?. D’Hondt adduce altre argomentazioni come il fatto che Hegel si oppose alla visione controrivoluzionaria di Walter Scott, dicendo che «non ha capito nulla della rivoluzione francese», e inoltre la consuetudine di festeggiare il 14 luglio di cui anche Kaube testimonia sopra. Fu simpatizzante della rivoluzione francese fino alla fine, dice D’Hondt. Questo è il fatto dirimente per collocare Hegel nel suo quadrante ideologico correttamente: quello progressista secondo D’Hondt.

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Quanto all’avversione di Hegel verso Fries D’Hondt converge con De Ruggiero il quale scrive: «Sarà il caso di considerare il suo contrasto con Fries, che era invece una persona assai rispettabile. Forse addirittura si potrà considerare questo contenzioso come un’avversione non del tutto giustificabile, tanto più che lo stesso Fries, proprio in quanto membro di una Burschenschaft, doveva essere lui stesso un costituzionalista. In questo punto almeno le vedute dovevano convergere, per tutta la sua vita, infatti, Hegel non ha cessato di ripetere che uno Stato non è tale senza una Costituzione». Fries « non fu certo rimproverato da Hegel per la sua posizione politica, quanto piuttosto – non voglio difendere Hegel oltre misura, ma occorrerà riconoscere il motivo del disaccordo -per il modo in cui egli giustificava la sua posizione costituzionalista ed antigovernativa. Si trattava, a parere di Hegel, di una giustificazione di tipo sentimentale, e quindi povera di argomenti, che non ragionava e non teneva conto dei fatti. Hegel è invece piuttosto un razionalista e un intellettualista che ha orrore delle pastoie del cuore e delle effusioni sentimentali».
Non fu un filosofo della Restaurazione ma neanche della Rivoluzione:

«Hegel non può essere considerato né come un rivoluzionario, né come un filosofo della rivoluzione, ossia come un teorico che preconizzerebbe un capovolgimento politico rapido e violento. Egli non fu infatti un partigiano della violenza rivoluzionaria, anche se non giustificò nemmeno la violenza controrivoluzionaria, aspetto assai importante, che spesso si dimentica di sottolineare». (Precisa De Ruggiero)

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La questione del nazionalismo
«Rispetto alla Burschenschaft (fraternità o associazione studentesca) che esaltava di continuo i valori della germanità, das Deutschtum, Hegel rispondeva con un gioco di parole che la germanità finiva per mettere in risalto semplicemente la “stupidità tedesca: Deutschdumm». Annota D’Hondt.

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Hegel mandò i figli al liceo francese e fu apertamente francofilo secondo D’Hondt.
«Sarebbe comunque esagerato presentare Hegel come un liberale senza aggiungere al contempo sfumature e restrizioni ad una tale caratterizzazione, giacché nella parte edita della sua opera, naturalmente sempre al vaglio della censura, si trovano elementi incompatibili con il liberalismo come lo si intende ora e come già lo si concepiva in alcuni ambienti avanzati dell’epoca. Un esempio classico ci è offerto dai Lineamenti di filosofia del diritto, dove Hegel tesse un elogio delle corporazioni, esprimendo quindi implicitamente il desiderio che ritornasse operante questa struttura ormai superata dalla storia e certamente illiberale. Nei Lineamenti Hegel accetta e addirittura spiega razionalmente l’istituto del maggiorasco, e cioè il diritto di primogenitura al fine di ereditare integralmente feudi e terre nobiliari. Forse se i Lineamenti non avessero contenuto anche tali elementi illiberali, questo testo non avrebbe potuto passare il vaglio della censura. È interessante notare comunque come Marx si avvide dell’inconseguenza, mettendo in risalto l’assurdità del voler giustificare un’istituzione così retriva e certamente antiliberale. Ma nel saggio sul Reform Bill inglese Hegel critica invece assai aspramente la legge del maggiorasco in Inghilterra, che invece era stato giustificato razionalmente per la Prussia pochi anni prima». (Jacques D’Hondt).

Un Hegel esoterico e uno essoterico

È vero che nei Lineamenti Hegel difese le corporazioni e il maggiorasco, ma li avversò nel saggio sul Reform Bill dicevamo dove questa difformità? Ecco una spiegazione fondamentale per comprendere che è esistito un Hegel essoterico e uno esoterico, segreto: questa spiegazione si chiama censura statale e dunque l’autocensura. Occorre ricordare che non solo i testi pubblici ma anche la corrispondenza privata erano controllati e che il governo prussiano metteva le spie alle calcagna di Hegel e di tutti gli esseri pensanti. Sulla corrispondenza, Hegel era «colui che preferiva in certi casi affidare le lettere ad un amico, piuttosto che alla posta, da lui definita “la posta aprente” (die öffnende Post), proprio perché la polizia apriva e censurava la corrispondenza».  (D’Hondt).

Hegel era pavido e tendente alla quiete. Non voleva o poteva disturbare i potenti. Come Cartesio diceva a sé stesso larvatus prodeo

Bello naturale e bello artistico in Hegel

Hegel come filosofo del Bello è freddo verso il “bello naturale” e attratto unicamente dal “bello artistico”, ossia là dove s’è esercitata la mano dell’uomo: le Piramidi, il Partenone, la musica di Rossini (che egli amava particolarmente). A differenza dei suoi contemporanei che proprio in quel torno di tempo scoprivano il “sublime” immancabilmente legato alla natura – vedi in filosofia la Critica del giudizio di I. Kant- o in pittura Il viandante su un mare di nebbia” (1818) di Caspar D. Friedrich – oppure in letteratura Oberman (1804) «l’homme des hauteurs», il romanzo del superomismo solitario e montanaro dello scrittore francese Étienne P. de Sénancour… Ebbene nessuna  attrattiva generava in Hegel la vista delle montagne di Berna nel periodo in cui fu a servizio da precettore presso gli Steiger von Tschugg. (1793-1796). E si tenga presente che proprio in quegli anni iniziava l’avventura dell’alpinismo moderno…

Jürgen Kaube così annota:

«Le montagne in sé […] gli comunicano già a valle “un senso di oppressione e inquietudine”, il rumore dei torrenti di montagna lo annoia tanto quanto gli ammassi di rocce morte per l’eternità, in cui la ragione non trova nulla da ammirare. Il resoconto di viaggio è dunque istruttivo anche per l’orientamento filosofico di Hegel. Il suo panteismo, per esempio, dev’essere stato di un genere assai particolare e in ogni caso non goethiano, se trovava la natura cosí poco piacevole e, soprattutto, non riusciva a trovarvi Dio. Per Hegel, la natura è l’ambito nel quale domina la lapidaria constatazione del «cosí è».

Analogamente rileva Jacques D’Hondt nella sua indagine biografica (Hegel, 1998) da cui traduco.

«Hegel esprime solo disprezzo per ciò che i suoi contemporanei ammirano, come la sublimità delle vette. Più tardi dirà che “le montagne imperiture non sono superiori alla rosa che si spegne rapidamente nella sua vita esangue”. Per il momento, egli nota l’immobilità delle grandi masse montuose. Non si muovono, non vivono: Es ist so! Le montagne sono un perenne È così!. D’altra parte, era deliziato dallo spettacolo della cascata del Reichenbach, che aveva già ispirato la poesia di Goethe Il canto degli spiriti sulle acque. Aggiunge considerazioni metaforicamente “dialettiche” alle sue riflessioni, che si basano sulle Lettere sull’educazione estetica di Schiller. Questa sontuosa cascata offre l’immagine di “ciò che è eternamente lo stesso” pur essendo continuamente altro».

* Questione dei cosiddetti Scritti teologici giovanili (che Kaube tratta in maniera necessariamente succinta).

Fatto singolarissimo è che l’unico  testo di un autore italiano segnalato da Kaube in bibliografia non è Remo Bodei o Lucio Colletti come mi sarei aspettato ma “il mio” Carmelo Lacorte Il primo Hegel, il testo che lessi amorevolmente in quel lontano 1974 durante il corso sugli Scritti teologici giovanili di Hegel.

Si tratta di scritti impropriamente definiti teologici che indagano lo spirito dei popoli attraverso la religione e comunque esprimono una diversa sensibilità fra,  da una parte, il giovane filosofo radicale appena uscito dallo Stift ancora intriso di illuminismo giovanile e di quella carica corrosiva nell’aggredire i vangeli cristiani, e dall’altra  l’anziano filosofo ufficiale di Berlino istituzionale e ipercauto in questioni di fede.

Jean Hyppolite nel suo  Introduction à la philosophie politique de Hegel indicherà in questi scritti il luogo fondativo addirittura dell’idealismo hegeliano con queste parole.

Prima […]  di intendere Hegel come successore di Fichte e Schelling e di definire dialetticamente la sua posizione filosofica, può essere interessante scoprire quale sia stato il punto di partenza del suo pensiero, e risalire alle opere giovanili, per scoprire in esse il carattere fondamentale dell’idealismo hegeliano. Possiamo dire che, a partire da Dilthey, questo studio delle opere giovanili si è spinto molto lontano, ha rinnovato l’interpretazione dell’hegelismo, al punto da far trascurare forse un po’ troppo il sistema compiuto. Sembra addirittura che ci sia talvolta una sorta di opposizione tra gli interpreti di Hegel che si attaccano al suo sistema, quello dell’Enciclopedia, e quelli che restano fedeli ai primi passi del pensiero hegeliano. Mentre Kröner o Hartmann nelle loro opere sull’idealismo tedesco trascurano le opere giovanili di Hegel e si sforzano di comprendere il nostro filosofo situandolo nel grande movimento filosofico del suo tempo, un Haering in Germania, un J. Wahl in Francia sono particolarmente interessati all’idealismo tedesco, genesi fenomenologica del sistema, in questi studi così vivaci e ancora così poco dogmatici sullo spirito di un popolo o sul cristianesimo per esempio. Non vogliamo qui scegliere assolutamente una di queste due strade. È la Fenomenologia di Hegel che ci ha particolarmente interessato nel nostro lavoro hegeliano e questo lavoro si situa proprio tra l’opera giovanile che ripensa e il sistema futuro che annuncia. Ritroviamo in esso l’intero “percorso della cultura” di Hegel, quello che egli stesso seguì prima di arrivare alla filosofia, e lo sforzo prodigioso del logico per ricondurre questa esperienza viva nel quadro di una riflessione rigorosa. Non sta a noi sapere se la logica ha ossificato questa vita o se, al contrario, come voleva Hegel, questa vita non è penetrata nella logica stessa. A questo proposito avremo anche l’opportunità di confrontare quello che Glockner chiama pantragismo hegeliano con il suo panlogismo, la sua intuizione della storia con la sua teoria della contraddizione.

Di questi scritti indugio un po’ solo sul testo La positività della religione cristiana (redatto nel 1795-6 con un rifacimento del 1800) poi pubblicato da Herman Nohl (1907). Hegel rimprovera qui  al cristianesimo di essere una religione positiva. La positività del cristianesimo è qualcosa che rimanda al suo contrario, alla natura. È positivo ciò che non è conforme alla natura e alla ragione e che non promana dall’uomo ma da una autorità esterna. «Una fede positiva è quel sistema di principi religiosi che per noi deve avere verità perché ci è imposto da un’ autorità». Ed Hegel, indagando su ciò che diede alla religione di Gesù l’occasione di diventare positiva spiega che tale religione « non essere postulata ad opera della ragione e di essere persino in contrasto con questa, o, se anche in accordo, di essere tale da esigere di essere creduta solo sulla base dell’autorità», (p.239 degli Scritti teologici giovanili Guida Napoli 1974).

Hegel individua alcuni profili sintomatici che rendono positiva (non conforme a natura e ragione) la religione cristiana. Essi sono: 1) l’insistere di Gesù sulla propria autorità e non sulla bontà e moralità dei suoi precetti, allorché, di contro, altri discepoli, quelli greci del V sec. a. C. «amavano Socrate per la sua virtù e per la sua filosofia e non la sua virtù e la sua filosofia per amor suo»; 2) presentarsi come il Messia, o l’unto del Signore, dal che discende che il contenuto del suo messaggio derivi non dalla ragione (anzi Hegel scrive acutamente: «richiamare solo la ragione avrebbe significato predicare ai pesci») ma dal fatto che  «Gesù esige attenzione per le sue dottrine non perché conformi alle esigenze morali del nostro spirito, ma perché volontà di Dio»; 3) Gesù ricorre a numeri speciali quali sono i miracoli per assicurarsi maggior autorità presso i suoi seguaci. «Furono i miracoli accettati con fiducia e fede che fondarono la fede dell’autorità del loro autore e l’autorità di questi divenne il principio dell’obbligatorietà della morale», «così la dottrina morale di Gesù non fu più oggetto della venerazione degli uomini per se stessa, come doveva essere, procurando venerazione per il Maestro, ma al contrario essa pretese rispetto solo a causa del Maestro, e questi a causa dei miracoli». 4). Altro elemento della positività della religione cristiana è il proselitismo, il convincimento che solo chi la pensa come te può ricevere attenzione o rispetto. Ma c’è una sottile sfumatura, una specie di effetto “risonanza” in questo elemento di positività: « Ogni individuo si rafforza tanto più nella sua fede positiva quante più persone può convincere o vedere già convinte», e infine Hegel ha un riferimento al “giogo leggero” della fede in Cristo. È un’osservazione acuta, molto sottile, quasi perfida: « Il giogo della fede, come ogni altro giogo, diviene più tollerabile quanto maggiore è il numero dei fedeli che lo portano, e nello zelo di far proseliti è spesso segretamente operante l’indignazione che altri voglia essere libero dalle catene che noi portiamo e da cui non abbiamo sufficiente forza di liberarci». Questo, un insospettabile Hegel non ancora trentenne per nulla ingessato rispetto a quello della maturità berlinese…

Giustamente D’Hondt sottolinea il tenore eretico e contestatario degli scritti teologici giovanili, non destinati alla pubblicazione salvo un radicale rifacimento che ne nascondesse le asperità dei toni e l’intento polemico della ricognizione dei testi evangelici. Hegel li conservò per tutta la vita.  Se li abbiamo è perché egli intendeva essere riscoperto nella sua linea illuminista o spinozista (lo Spinoza del Tractatus), ossia  investigatore dei testi evangelici sulla scia degli Illuministi  e degli Illuminati (di cui leggeva la rivista Minerva secondo le informazioni di Hegel segreto di Jacques D’Hondt), non solo i francesi ma gli amburghesi, quali  il Lessing e il Reimarus innanzitutto, e sulla scia dello spinoziano Jakobi. Tratto non sufficientemente discusso da Kaube.

Appunti sparsi 

*Volete “capire” Hegel d’emblée? Leggete questo passo.

«La conquista immortale di Hegel è l’affermazione dell’unità degli opposti, concepita non nel senso di una statica e mistica “coincidentia oppositorum” ma in quello di una dinamica “concordia discors”: la quale è assolutamente necessaria alla realtà perché essa possa esser pensata come vita, svolgimento, valore, in cui ogni positività sia costretta a realizzarsi insieme affermando ed eternamente superando la sua negatività. Nello stesso tempo, la conciliazione dialettica dei dualismi essenziali del reale (bene e male, vero e falso, finito e infinito ecc.) porta all’esclusione categorica di tutte quelle altre forme di dualismo, che si basano sulla fondamentale antitesi di un mondo della realtà e di un mondo dell’apparenza, di una sfera della trascendenza o del noumeno e di una sfera dell’immanenza o del fenomeno: antitesi che tutte si eliminano per la rigorosa dissoluzione del loro elemento trascendente o noumenico, che rappresenta la mera esigenza, per tal via insoddisfabile e ora altrimenti soddisfatta, di salire dal mondo delle antinomie e delle contraddizioni a quello della immota e pacifica realtà. Hegel è così il vero instauratore dell’immanentismo: nella dottrina dell’identità del razionale e del reale è consacrato il concetto del valore unitario del mondo nel suo concreto sviluppo, come nella critica dell’astratto “sollen” si esprime tipicamente l’antitesi ad ogni negazione di quell’unità e ad ogni ipostatizzazione dell’ideale in una sfera trascendente a quella della sua realizzazione effettiva. E da questo punto di vista, per la prima volta, il valore della realtà s’identifica assolutamente con quello della sua storia: nell’immanenza hegeliana è insieme, così, la fondazione capitale di tutto lo storicismo moderno.
Dialettica, immanentismo, storicismo: questi, si potrebbe riassumere, i meriti essenziali del hegelismo dal punto di vista del pensiero crociano, che sotto questo rispetto può realmente sentirsene seguace e continuatore».

È un passo di Guido Calogero [altro mio filosofo di riferimento] riportato da Gramsci nel Quaderno 10 (XXXIII) § (4) dall’articolo “Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo”, «Nuova Antologia», 16 agosto 1930 (si tratta della relazione letta in tedesco dal Calogero al I° Congresso internazionale hegeliano, tenutosi all’Aja dal 21 al 24 aprile 1930). Guido Calogero nel 1930 ha 26 anni. A 21 s’era laureato con una tesi sulla logica aristotelica confluita poi nel suo I fondamenti della logica aristotelica del 1927. A 23 anni. Buone ragioni queste per dichiararsi falliti nella vita dello spirito. Sto parlando di me.

* «Gli amici avranno difficoltà a distinguere nel discorso hegeliano l’abilità, l’astuzia, l’illusione e l’autentica profondità». «Nessuna personalità piú contrastata di quella di questo “sistematico». D’Hondt

* Per comprendere la dialettica servo/padrone. La figure du valet (Knecht), facilement assimilée à celle de l’esclave — le symbole de la servitude —, tient une place si importante dans la “Phénoménologie de l’esprit” que certains ont même voulu réduire celle-ci pour l’essentiel à la célèbre « dialectique du maître et de l’esclave », littéralement : « du valet » : Herr und Knecht, développée dans un chapitre important et original. Mais, en l’occurrence, il serait opportun de se souvenir que Hegel a lui-même été un valet, et longtemps. (D’Hondt, Hegel)

Tenete insomma conto che sia Rousseau che Hegel furono dei valletti e che molti intellettuali venuti in auge col romanticismo erano di basso rango sociale! Si comprenderà di più la loro grandezza. Io sono molto sensibile verso coloro che hanno combattuto durante la loro esistenza. Ricordate Stefano Satta- Flores in “C’eravamo tanto amati”. Struggente, lirico, scomposto, disarmonico, fallito, epperò vivo.

* Ancora D’Hondt. <<Ses oeuvres de jeunesse, révélées tardivement, se montrent plus hardies dans la critique religieuse ou politique que celles de la maturité.>>
Per molto meno Fichte fu accusato di ateismo e costretto a lasciare la cattedra.
<<Le problème est de savoir si les allusions prudentes des textes tardifs conservent quelque chose de cette pensée de jeunesse, et si Hegel n’a pas finalement adouci ou travesti sa pensée profonde pour en communiquer du moins certains aspects au public. Ibidem.

Tralascio tutte le altre paginate di  appunti troppo particolareggiati e specialistici.

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