Filosofia
Il lato B delle parole
Caro Cigno Nero,
Ho sentito dire da un noto opinionista che la lingua tedesca è perfetta, al contrario di quella italiana che , perciò, necessita di molti aggettivi e avverbi.Prescindendo da questa inconcepibile svalutazione della lingua italiana, prendiamo in considerazione la parola tedesca “weltanschauung”, a cui corrisponde, in italiano: visione del mondo, concezione dell’uomo e della vita emergente da un autore, da un testo o anche da una civiltà. Peccato che il termine venga spesso confuso con “ideologia” e che, per Marx, è particolarmente l’ideologia politica, intesa come falsa coscienza. Probabilmente le parole che usiamo rappresentano la nostra personalità e plasmano la realtà, in una concezione dinamica della lingua, organismo vivo e in continua evoluzione. In quest’ottica sarebbe meglio evitare di far passare il messaggio dell’inutilità di aggettivi ed avverbi. La ridondanza è un’altra cosa.Per fortuna anche con le parole si può giocare, usando il linguaggio con creatività.Recentemente si è letto, sul pavimento di una stazione ferroviaria: RESPECT THE SOCIAL DISTANCE, con accanto la traduzione letterale: “RISPETTA LA DISTANZA SOCIALE”, mentre, attingendo all’inesauribile ricchezza della lingua italiana, possiamo avere: “rispetta la distanza interpersonale/fisica/di sicurezza. DISTANZA “SOCIALE” rimanda direttamente a “classe sociale”, “livello sociale”, “ascensore sociale”, e simili.
Se pensassimo di eliminare un qualsiasi aggettivo aggiunto alla parola “distanza”, sarebbe più chiaro ed inequivocabile il messaggio?
Dante
Caro Dante,
La questione che poni riguarda il rapporto tra pensiero e linguaggio. Il pensiero è, probabilmente, un fenomeno pre-linguistico, e, storicamente, abbiamo ereditato e condiviso una matrice linguistica attraverso la quale comunichiamo, in forme diverse, il pensato.
Con un numero limitato di parole possiamo creare pensieri ipoteticamente infiniti, anche se è chiaro che ad una maggiore ricchezza di parole corrisponde una maggiore ricchezza concettuale. In questa tensione, dove il pensiero è incontrollato e il linguaggio no, il pensiero si scopre anarchico, perché sente che la sua forza generativa è inibita dai vincoli semplificanti del linguaggio e dal dispotismo della sua logica. Quando “non troviamo le parole per dirlo” ci si mostra quel confine interno, quasi prigione, che il linguaggio è per il pensiero, che invece vorrebbe avere sempre l’ultima parola, quella definitiva. E invece pare che ci tocchi accontentarci di frammenti di pensiero nel linguaggio. Ma è proprio questa interferenza tra il pensato e il detto a rendere possibile la creatività. Ne è un esempio il Finnegans Wake di Joyce, scritto con un linguaggio polisemico che sfida quell’ interferenza: non segue regole grammaticali né ortografiche, fonde tra loro le parole, le deforma, spingendole l’una verso l’altra con lo scopo di ricreare un linguaggio onirico, dando così a quelle parole significati multipli che permettono di creare nuove idee all’infinito.
Forse ha ragione Wittgenstein quando dice che il linguaggio, in quanto rappresentazione del mondo, è come un gioco, per via delle sue regole. Ma il linguaggio è anche la forma che diamo all’immaginazione. Le parole hanno tante vite. Combinandole insieme, proprio come un bambino farebbe con i Lego, non costruiamo solo frasi ma anche relazioni, nuovi mondi e ponti da attraversare. Nelle parole possiamo smarrirci e ritrovarci, a volte ci nascondiamo, come nelle fortezze, altre ci raccontiamo, altre ancora ci custodiamo, trasformandole in casa. Perché siamo anche le parole che usiamo. Perché le parole dicono molto della nostra visione del mondo. Quelle non dette, o che osiamo dire solo a noi stessi, quelle che fanno rumore o inaugurano silenzi. Tracce di noi nel tempo, sono la nostra eco. Se poi il loro suono diventa musica, è la prova che sono riuscite a tradurre, anche se solo parzialmente, il complesso di idee, immagini e sentimenti di cui un certo linguaggio è espressione.
Il Finnegans Wake di Joyce è rimasto intraducibile per molti anni. Nella traduzione da una lingua all’altra le parole escono dalla loro zona di comfort. Traducendo si perde sempre qualcosa, ma quello che resta può sorprenderci: la forza immaginativa che avverbi e aggettivi possono infondere ai concetti. Certo, non sempre le traduzioni hanno successo (e alcune volte hanno accettato la censura e manipolato i pensieri), ma questo dipende dai limiti che noi stessi mettiamo alla creatività.
Se il pensiero è pre-linguistico, l’uso che facciamo della lingua ci permette, attraverso le parole, acquisite, vissute, comunicate, cercate, non solo di dare significato alle cose del mondo, ma anche di generare in noi nuovi pensieri. Ed è proprio questo che rende la lingua un organismo vivo e in continua evoluzione, come scrivi.
Resta la domanda: esiste una lingua perfetta? Se con “perfetta” si intende la lingua dell’esatta corrispondenza tra ciò che diciamo e ciò che pensiamo, sentiamo, desideriamo, che cioè soddisfa una volta per tutte il nostro bisogno di “definizioni definitive”, allora non esiste. Perché sarebbe, il nostro, un linguaggio che non ha altro da dire oltre quello che dice, che non ha “seconde possibilità”. E sarebbe anche un linguaggio che non lascia parlare le cose di quel mondo che abitiamo. Invece, per fortuna, esiste un linguaggio poetico che ci permette questo cambio di prospettiva. Così, mentre Heidegger prova a interrogare una brocca nella lingua tedesca, la sua, e ne tira fuori il concetto das Dinghafte des Dinges, che noi traduciamo con “cosalità della cosa”, e che può piacere o no come traduzione, la poesia di Francis Ponge dà la parola alla goccia di inchiostro che riempie le more, alle crepe del pane, ai bordi di mare.
Insomma non esistono lingue di serie A e lingue di serie B, però esiste un lato B delle parole, che ci si mostra quando le portiamo fuori da quella zona di comfort, dall’abitudine di certi contesti, dalla familiarità del loro suono, e che forse facciamo fatica a vedere nel linguaggio del presente, quello sì ridondante, fatto di slogan rubati alla pubblicità, di frasi e titoli in prima pagina ossessivi e ripetitivi, e di parole diventate piatte e unidimensionali, come “contagio”, che non riguarda più pensieri o emozioni, o “nemico”, tanto invisibile quanto onnipresente.
È successo anche alla distanza, che è diventata distanza sociale, facendoci dimenticare ogni altro tipo di distanza. Formale nel suo farsi prossemica, “giusta” se resta variabile tra i 120 e i 360 cm, o “sbagliata” se non rispetta le misure consentite. Ma di distanze ne abbiamo conosciute tante. Non solo quelle fisiche o di sicurezza, che anche l’OMS ha riconosciuto come espressioni più adatte al tipo di distanza cui siamo obbligati oggi.
Le distanze le abbiamo prese, misurate, mantenute. Nella lingua giapponese a volte la distanza (Kyori) la si “posa” (kyori wo oku), ed è proprio in questa immagine che sta il lato B di questa parola, tutt’altro che secondario, come vorrebbe la definizione da dizionario, ma sicuramente “audiovisivo”.
Una distanza che si posa non ha il suono delle altre distanze. Fa pensare ai fiocchi di neve che “cadono dalle nuvole” ognuno a modo suo, e in questa caduta assumono forme e grandezze diverse, visibili non appena “accorciamo le distanze” e li osserviamo da molto vicino, scoprendo che si tratta di cristalli di ghiaccio dalle strutture molto complesse.
Una distanza che si posa può farci vedere le cose sotto un altro aspetto, come i paesaggi innevati che rendono insolito il familiare, e, in quel legame problematico e bellissimo che c’è tra linguaggio e pensiero, insegnarci che della distanza ci si può anche prendere cura, se aggiungiamo un mattoncino in più e la “distanza da mantenere” diventa una distanza da “manutenere”.
Se Joyce fosse stato bulgaro o cinese, avrebbe potuto concepire lo stesso il Finnegans Wake? Se noi stessi parlassimo una lingua diversa, penseremmo in modo diverso?
Maria Luisa Petruccelli
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