Filosofia

Il green pass e l’utilitarismo di Stato

8 Agosto 2021

AVVERTENZA PRELIMINARE: Siccome sto per sollevare alcune preoccupazioni sull’introduzione e l’obbligatorietà de facto del green pass, almeno per alcune categorie come la mia, vorrei premettere che sono favorevole al vaccino anti Covid-19, sono corso a farlo appena mi è stata data la possibilità, ho scaricato il green pass il primo giorno in cui esso era disponibile sull’App Immuni (avevo anche quella) e sto cercando di fare tutto il possibile per convincere gli scettici che mi capitano a tiro a vaccinarsi. Detto questo cominciamo.

 

Nei giorni scorsi ha fatto scalpore un intervento di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in cui i due pensatori hanno paventato una deriva anti-democratica e discriminatoria conseguente all’introduzione del green pass. A questo intervento è seguita un’onda di sdegno di altri intellettuali, come Paolo Flores d’Arcais e Umberto Galimberti, che si sono scagliati contro Cacciari e Agamben, proponendo però contro-argomentazioni (se così si può definirle) piuttosto problematiche. Galimberti ha suggerito che Cacciari fosse motivato da ragioni di narcisismo e dalla scocciatura di non aver potuto viaggiare liberamente tra Milano e Venezia durante il lockdown. Si tratta qui di una critica ad personam che non sfiora minimamente la struttura argomentativa di quanto scrivono Cacciari e Agamben. Nella filosofia accademica argomenti del genere sono classificati come fallacie. Flores d’Arcais ha invece suggerito una bizzarra analogia tra green pass, patente di guida, porto d’armi e divieto di fumo nei locali pubblici. Mi sembra palese che l’analogia non regge. Nessuno mi costringe a guidare, a possedere un’arma o a fumare sigarette se non lo desidero, minacciando addirittura di tagliarmi lo stipendio o di impedirmi la libera circolazione se non guido, non amo sparare o non fumo.

 

Credo dunque che la questione sollevata da Cacciari e Agamben non sia affatto banale, né pacificamente accantonabile come una boutade di due intellettuali in cerca di attenzione (i due mi pare ne avessero a sufficienza anche prima). La debolezza dell’intervento di Cacciari e Agamben consiste semmai nell’essere soltanto allusivo, suggerendo una valenza simbolica del green pass che lo collega associativamente ai passaporti interni dell’URSS, diventando così foriero di una possibile deriva anti-democratica della nostra società. Ritengo che la questione filosoficamente problematica del green pass sia un’altra, ben più chiara e per nulla simbolico-allusiva: l’imposizione di un utilitarismo di Stato come teoria morale di riferimento dell’azione politica. Se la cifra dello Stato di diritto liberale è il rifiuto di favorire una visione del mondo rispetto ad altre, allora la decisione di adottare una teoria morale di riferimento a scapito di altre per decreto costituisce de facto un passo di allontanamento dallo Stato di diritto liberale.

 

L’utilitarismo è, a grandi linee, la teoria elaborata da pensatori inglesi come Jeremy Bentham e John Stuart Mill a metà Ottocento secondo cui il bene morale (e dunque il criterio a cui orientare la propria azione affinché sia buona) consiste nella massimizzazione del benessere per il maggior numero di persone. È palese che la validità di questa tesi è l’assunto inespresso che sta dietro all’introduzione del green pass. Un soggetto vaccinato o risultato negativo al tampone nelle 48 ore precedenti è un soggetto morale, che si fa garante della massimizzazione del benessere (in questo caso la salute fisica) di tutte le persone che incontrerà. Pertanto chi si rende immorale sottraendosi a questa dinamica di massimizzazione su vasta scala va tenuto alla larga da quel corpo sociale al cui benessere complessivo si rifiuta di contribuire.

 

A chi la prospettiva utilitaristica così sintetizzata risultasse ovviamente condivisibile è bene ricordare che essa non è, in realtà, priva di problemi. Spingendo all’estremo la logica utilitaristica si potrebbe sostenere, ad esempio, che è moralmente giusto uccidere una persona in buona salute per espiantarne gli organi e così facendo salvare la vita a cinque persone malate che di quegli organi hanno bisogno per stare bene. Un atto del genere massimizzerebbe il benessere complessivo restituendo al corpo sociale cinque soggetti in buona salute al prezzo di uno. Non sto assolutamente cercando di suggerire uno scenario da “piano inclinato” (slippery slope) del tipo: se cominciamo col green pass chissà dove andremo a finire, magari ad espiantare organi a persone sane. Ci mancherebbe! Anche questa, come quella ad personam commessa da Galimberti, è una fallacia nota e codificata che il filosofo serio dovrebbe evitare di commettere. Però l’esempio iperbolico di cui sopra è una sorta di esperimento mentale volto a mettere in luce una difficoltà intrinseca alla teoria morale utilitaristica: il soggetto umano viene inserito in una logica di calcolo da cui, una volta accettata, è impossibile uscire. Ciascuno di noi è ridotto a mera pedina su una scacchiera che è compito del legislatore organizzare per vincere la partita della massimizzazione del benessere sociale complessivo, anche se questo può comportare il sacrificio (non per forza fisico, ma morale, psicologico, sociale, ecc.) della pedina in questione. Quando giochiamo a scacchi siamo tutti utilitaristi: sacrifichiamo ben volentieri una pedina se questo servirà a massimizzare le chance di vincere la partita.

 

Il problema è che io non sono una pedina su una scacchiera e l’unica partita che gioco è la mia esistenza individuale irripetibile, nella sua intersezione con le esistenze individuali irripetibili degli altri io che mi circondano. Questa è l’intuizione che sta alla base di una tradizione morale di tenore opposto all’utilitarismo: la deontologia kantiana, la cui tesi portante è sintetizzata dal filosofo di Königsberg nella seconda formulazione dell’imperativo categorico della Fondazione della metafisica dei costumi: “Agisci in modo da considerare, l’umanità nella tua persona e nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo”. Secondo questa prospettiva morale la nostra dignità umana, quella caratteristica che ci eleva al di sopra del resto della natura, consiste nella capacità di scelta libera dei propri fini. Ogni forma di interazione con l’altro che non consideri questa libertà essenziale lo degrada a mera cosa tra le cose. È palese che costringere, nei fatti, a vaccinarsi con un farmaco ancora categorizzato come sperimentale una persona che in coscienza non sia convinta di farlo è un atto immorale se giudicato dalla prospettiva kantiana. Così facendo considero l’altro soltanto come mezzo, cioè come mero corpo infettabile da manipolare per raggiungere i miei fini (non infettarmi o non lasciar diffondere il virus) ma non considero l’altro come fine in sé.

 

A questo riguardo, in questi giorni ho sentito ripetere ad nauseam quella che considero una delle frasi a effetto più becere mai proferite da essere umano: “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri”. Questa perla di saggezza viene invocata come se avesse un effetto dirimente a favore del green pass e della liceità di un obbligo vaccinale di fatto. Il ragionamento implicito è: la mia libertà di non vaccinarmi finisce dove inizia la libertà degli altri di andare a ristorante o a scuola senza il timore di infettarsi. Ma è palese che la frase a effetto è un’idiozia e non dirime proprio un bel nulla perché essa si può leggere con pari diritto anche al contrario: la tua libertà di andare a ristorante o a scuola senza il timore di infettarti finisce dove inizia la mia libertà di non vaccinarmi (aggiungerei: con un farmaco ancora sperimentale). Quindi con questi tipi di ragionamento finiamo in un vicolo cieco morale, andando poi inevitabilmente a trasferire la decisione dal piano morale a quello del mero braccio di ferro politico.

 

Che dire dunque? Anzitutto che non mi risulta che l’utilitarismo sia stato stabilito in modo filosoficamente inoppugnabile coma la teoria morale normativa corretta a scapito della deontologia kantiana, quindi non è affatto pacifico che l’utilitarismo venga assunto a criterio morale per orientare scelte gravose come quella dell’introduzione del green pass. Neanche la deontologia kantiana, a ben vedere, è stata dimostrata come la teoria morale corretta ma, appunto, uno Stato liberale di diritto non dovrebbe favorire una visione del mondo rispetto ad un’altra, dato che il dibattito è aperto e lo è da più di due secoli. Va detto però che per limitare i problemi dell’utilitarismo, solitamente si ricorre a mezzi vagamenti kantiani in funzione correttiva, mostrando così, forse, una certa superiorità teorica della deontologia che molti filosofi morali, credo, sarebbero propensi a concedere. L’opzione utilitarista “pura” è inquietante perché apre lo scenario ad una potenziale negoziabilità della dignità e libertà di scelta individuale in nome della massimizzazione di un supposto benessere il cui contenuto concreto, però, è di fatto sempre deciso da chi detiene il potere politico e mediatico.

 

Ritengo dunque che la scelta più “neutrale” rispetto alle diverse concezioni morali sarebbe stata quella di potenziare a dismisura la campagna di informazione e la ricerca sui vaccini, prendersi la responsabilità di approvarli in via definitiva, piuttosto a costo di modificare le disposizioni che regolano il passaggio da farmaco sperimentale a farmaco a tutti gli effetti, e poi lasciare che il naturale equilibrio di rischi e responsabilità che caratterizza ogni società umana venisse assunto dai cittadini e dai corpi intermedi a cui i cittadini partecipano. Così come la persona giovane e in buona salute si trova a soppesare i rischi e i benefici dell’assunzione di un vaccino per il momento solo sperimentale (idealmente accompagnata in questa valutazione da una buona informazione e da un confronto diretto con le persone ben informate che gli stanno accanto), la persona non più giovane o con malattie pregresse si trova a soppesare i rischi e benefici della decisione, ad esempio, di andare a ristorante o di prendere un bus affollato. Questo scenario è ben lungi dal rappresentare una sorta di giungla in cui ognuno fa e decide quello che vuole. Si tratta invece di uno scenario in cui la libertà di scelta di ciascuno è vista come un bene prioritario, al limite superiore anche alla propria incolumità fisica e a quella altrui, incolumità che del resto non è possibile garantire in nessun caso, nemmeno in quello ideale in cui tutti si vaccinassero.

 

Occorrerebbe dunque, da veri filosofi, evitare le arene e gli accapigliamenti catodici e concentrarsi sugli assunti teorici inespressi che guidano, spesso inconsapevolmente, le scelte politiche. Non è possibile accettare che una teoria morale, per altro altamente problematica, come l’utilitarismo venga tacitamente sdoganata e imposta a tutti per legge. Il punto non è che la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri (ricordate: è una frase a effetto fintamente profonda ma in realtà becera perché si può leggere in due sensi e dunque non dirime nulla), ma che la libertà di ciascuno è quel valore che rende il genere umano degno di essere protetto da virus pericolosi come il Covid-19. Non è possibile eliminare dalla società le dimensioni del rischio e della responsabilità personale e collettiva: come dicono giustamente Cacciari e Agamben, il green pass non può diventare uno strumento discriminatorio e, ancora più profondamente, aggiungerei io, non può diventare l’escamotage per sancire un utilitarismo di Stato.

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