Filosofia
Il Gramsci rivoluzionario di Diego Fusaro
(La foto soprastante è tratta da AffariItaliani)
Massimo Cacciari, beccato una decina di giorni fa nella metropolitana milanese da un fotografo mentre leggeva questo “Antonio Gramsci La passione di esistere” di Diego Fusaro, e richiesto di rilasciare una dichiarazione, ha risposto laconicamente: “Non ne parlo”.
Tocca a noi che l’abbiamo letto per pura coincidenza nello stesso torno di tempo parlare qui di questo libro del pirotecnico Fusaro, cercando di farne una ricognizione il più possibile referenziale, nonostante la magmaticità del tema e l’efflorescenza linguistica del suo autore, non senza rinunciare ad alcune zeppe esplicative per rendere più intellegibile il tutto ai digiuni di marxismo o di filosofia.
Ci sono due libri in uno in questo volume: da una parte una ricognizione critica, molto serena e “scientificamente” accettabile del pensiero politico di Gramsci, e sulla scorta di essa, dall’altro, una presa di posizione appassionata e altamente ideologica del filosofo comunista o neo-comunista Fusaro quale sembra emergere dalle conclusioni del libro. Sì dirà che in un pensatore come Gramsci, e di converso, nel suo accaldato notomizzatore, il momento teoretico e quello pratico-politico non possano essere disgiunti, che l’investigazione del pensiero di un ideologo come Gramsci non possa lasciare freddi, come pesci sul banco di una pescheria, i pensieri del suo esegeta.
Ma così non è sempre. Chi ha letto il saggio analogo di Raul Mordenti, peraltro molto presente nelle note a piè di pagina di Fusaro, si renderà subito conto che l’opera di esegesi per quanto partecipe e appassionata lascia in disparte i moti del cuore o l’appello all’azione. Non per Fusaro. Egli ha ripreso in mano l’immensa ragnatela del pensiero gramsciano, non per farne una fredda disamina, ma per ereditare il suo “spirito di scissione”, per mettere il suo pensiero al servizio della propria “espressività” anticapitalista, del proprio “combat” contro le mostruosità del capitalismo di oggi, quel capitalismo che rende gli uomini «abitatori coatti della gabbia d’acciaio del sistema globale».
Non è un libro su Gramsci dunque, ma a partire da Gramsci. È un libro di militanza ideologica sotto veste accademica. E ciò sopratutto sia nel primo capitolo, una sorta di calda antifona in cui si evoca il Gramsci combattente dalla “rabbia appassionata” e dal temperamento eroico e non conciliato, che soprattutto nell’ultimo, ove sulla falsariga del “Principe” di Machiavelli, si lasciano al loro destino le movenze fredde dell’indagine specialistica per lanciarsi nell’appello ai cuori, alle coscienze, chiamando cioè alla lotta dura e pura contro la “catechesi mercatista” in compagnia di Gramsci di cui si sposa il punto di vista rivoluzionario, comunista e anticapitalista.
Nel mezzo c’è l’investigazione (ma il correttore automatico mi ha suggerito “interrogazione”, che c’è pure) dei testi gramsciani a partire del punto focale individuato che è quello della “filosofia della prassi”. Occorre dire che tale indagine non è proprio originalissima, anzi, da sagace ricercatore Fusaro bordeggia (il correttore mi ha suggerito “borseggia”) cautamente, fino alla più onesta e secca compilazione, i testi di una folta bibliografia (che si addensa per pura nevrosi accademica, visto che solo una minima parte viene richiamata nelle note, alla fine del volume) specie i lavori di Raul Mordenti e di Fabio Frosini, che sono tra le più compiute ricognizioni dei “Quaderni” gramsciani prodotte dagli studiosi oggi in Italia. Ma la compilazione fusariana ha tuttavia il pregio, non si fa fatica a riconoscere, di essere chiara al netto di un frasario spesso immaginificamente orfico, seppur facilmente scardinabile.
Veniamo al dunque.
Era opinione di Lucio Colletti (“Tra marxismo e no”, Laterza 1979) che Gramsci non avesse apportato alcun contributo significativo al marxismo. Fusaro non è d’accordo e s’ingaggia ad affrontare alcuni nodi teorici della dottrina marxista in cui il contributo gramsciano è evidente. Il primo nodo da sciogliere è l’aporia o meglio dire quelle due visioni incompatibili presenti in seno al pensiero di Marx circa i tempi e i modi dell’avvento della società comunista. Molti lettori di Marx ricorderanno da un lato alcune indicazioni sintetiche raccolte sotto il titolo di “Tesi a Feuerbach” (che Gramsci tradusse nel suo VII Quaderno) in cui si palesa un evidente invito all’azione, alla prassi trasformativa, all’attività pratico-critica e rivoluzionaria del soggetto sullo sviluppo storico. Icastica e celebre in tal senso l’11ª tesi in cui sinteticamente la prassi ha il sopravvento: «I filosofi hanno fino ad ora interpretato il mondo, si tratta adesso di cambiarlo». Ma, per altro verso, emerge un successivo Marx “scienziato” sociale, novello Darwin, che tende a enucleare alcune “leggi” del moto storico ove, in questo quadro teoretico, il volontarismo soggettivo e l’azione modificativa dell’uomo sono ritenuti incompatibili, perché se di “leggi” di funzionamento della storia si tratta, l’azione umana, la prassi autrasformativa nulla può. È l’impostazione che Marx dà (o che si ritenne venisse da egli data) in un altro celebre testo, nell’Introduzione a “Per la critica dell’economia politica” in cui si legge un’interpretazione del divenire sociale tipica di un “processo naturale”. In un modo di produzione dato, se non si manifestano le condizioni oggettive del passaggio da un tipo di società a un’altra, poco o nulla può fare il soggetto agente. D’altronde incalza lo stesso Marx : «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Lo “scienziato” ed economista Marx sembrava sbarrare la strada al “filosofo” pratico-critico delle “Tesi”, che invitava all’azione, alla prassi autotrasformativa.
Ora, la seconda posizione di Marx era quella egemone a fine Ottocento (le “Tesi” a Feuerbach erano state pubblicate solo nel 1888 in Germania da Engels) e si era fusa con lo scientismo positivista che intendeva lasciare fatalisticamente al moto storico lo scocco dell’Ora X, il passaggio alla società futura, che sarebbe avvenuto nel momento in cui le forze produttive sarebbero entrate in conflitto con i rapporti di produzione mettendo in crisi il modo di produzione.
Contro questa concezione meccanicistica, intrisa di rigido economicismo, ma anche di inerzia attendista e di “pigrizia fatalistica”, si erge la “passione antiadattiva” del giovane Gramsci, il “Marx italiano” (questa formula ritorna enfaticamente ben dodici volte nel corso del testo). Compito che si prefigge Gramsci lungo tutta la sua carriera intellettuale, dal 1911 fino alla morte nel 1937, è dunque la “defatalizzazione dell’essente” dice Fusaro nel suo linguaggio che sa di Heidegger. In altre parole, se il vero motore del divenire sociale è la prassi, l’azione politica, l’attività cosciente del soggetto che opera nella storia, vengono a cadere le proiezioni finalistiche che stanno fuori dall’uomo. Bisogna anzi combattere e disinnescare i dispositivi fatalistici e la conseguente passività. Ciò che accade non è ciò che deve necessariamente accadere, fatalisticamente, ma ciò che tu, soggetto, agente storico, hai voluto (spinto, determinato) che accadesse. Ne consegue una rivisitazione dello stesso materialismo storico, il noto rapporto dialettico tra la base strutturale, l’economia, e la sovrastruttura, ossia tagliando corto: la politica. In questa prospettiva insomma non è la base economica sottostante a generare il moto della storia e il divenire sociale, non è più l’economia il “nostro destino” come sosteneva Walter Rathenau, ma la politica. Il punto chiosa Fusaro è questo: «La gramsciana filosofia della praxis rigetta l’economicismo deterministico e muove dall’assunto che non sia la dialettica interna alla base strutturale a produrre meccanicisticamente crisi e transizioni. A generarle è, al contrario, il conflitto politico, che pure sorge sul terreno della struttura economica, risultandone influenzato ma non determinato in maniera rigida. La struttura socio-economica influenza, ma non determina rigidamente la libera prassi storica: la “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica” è, pertanto, riletta tramite l’impianto categoriale delle undici “Tesi”».
Per Fusaro Gramsci predilige il Marx in piedi, il combattente del Vormärz degli anni ’40-’50, e non quello seduto, lo studioso scienziato torturato dalle emorroidi, del British Museum che scrive “Il Capitale” a partire dagli anni ’60. Fusaro ricorda a tal proposito il celebre articolo di Gramsci “La rivoluzione contro il Capitale“uscito sull’Avanti” il 24 dicembre del 1917, articolo teso ad analizzare l’Ottobre russo come dimostrazione per fatti concludenti che è la prassi a piegare il corso della storia, diversamente da quanto previsto dallo stesso Marx nella sua opera massima che poneva, secondo”processo naturale”, lo scoppio delle contraddizioni capitalistiche in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Questa supremazia della politica potrebbe ricordare la celebre battuta di Bismarck per il quale la politica ha carattere creativo quando trova il varco e “cerca di afferrare il mantello fuggitivo della storia” facendo diventare reale ciò che fino a poco prima era una mera ipotesi, come l’azione politica, atto creativo puro, consente a Cavour di mettere al mondo un mondo che prima non c’era. E anche così vista, la questione potrebbe trovare la sua ragion d’essere. Ma a Fusaro filosofo puro e studioso dell’idealismo tedesco in questa fase interessa un altro aspetto: sottolineare che la filosofia della prassi di Gramsci trova straordinarie connessioni oltre che con le celebri “Tesi” di Marx, con l’idealismo attualistico di Giovanni Gentile, il filosofo ritenuto l’ ideologo del fascismo. O meglio dire con una interpretazione di Marx mediata dal Gentile non ancora fascista autore all’alba del secolo XX del saggio “La filosofia di Marx”. È una questione interessante questa di un Gramsci gentiliano, ma in un testo “scientifico”richiederebbe adeguati approfondimenti e necessarie ricognizioni più particolareggiate, mentre in un testo “militante” è questione secondaria, a meno che l’autore non voglia prospettare altre genealogie con ripercussioni dirette sul piano pratico-politico.
Sia come sia, occorre per intanto da un lato rintracciare i nessi logico-concettuali onde ricostruire questa intricata vicenda, a lungo trascurata, della filiazione gentiliana di questo aspetto del gramscismo e correggere dall’altro l’interpretazione oggi prevalente di un Gramsci materialista perché in verità di un idealista si tratta (il maestro di Fusaro, Costanzo Preve, riteneva che lo stesso Marx fosse un idealista), e in quanto idealista, occorre anteporre, alla linea prevalente e più condivisa del binomio Gramsci-Croce, quella del Gramsci-Gentile, “il Marx ed Hegel italiani”. E proprio questo nuovo nesso, sembra avere impatti notevoli sulla “espressività” prima filosofica e quindi pratico-politica del Fusaro che oggi impazza sulla scena mediatica.
Il ragionamento condotto da Fusaro è il seguente. Se il prius è l’azione politica, la prassi, ne segue che, come dicono gli idealisti (e non i materialisti), è il soggetto che pone l’oggetto e non viceversa, ciò che espressamente argomentava lo stesso Marx nella “Prima tesi” a Feuerbach quando scrive che «il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall’idealismo». Siamo cioè nell’ambito della scoperta idealistica dell’oggettività come prodotto storico del fare umano. La realtà in sé non esiste senza l’azione umana; detto in termini filosofici, ossia ricorrendo all’idealismo attualistico «non vi è oggetto senza il soggetto, essendo il primo il prodotto pratico e storico del porre del secondo». La filosofia della prassi si pone come sintesi e fusione tra spiritualismo e materialismo « come atto in atto, come svolgimento storico-pratico, come divenire e, dunque, come esito mai definitivo del porre soggettivo che si determina storicamente». In questa prospettiva Gramsci segue più la logica identitaria tutta gentiliana di “teoria e prassi”, di “filosofia e politica” che la logica dei distinti di Croce. Questa filosofia della prassi gramsciana altro non è dunque che una variante “rivoluzionaria” dell’attualismo gentiliano come quella fascista la variante conservatrice (Del Noce).
Non è neanche questa una tesi del tutto nuova tuttavia. Circolava già negli anni Novanta ( Natoli, Tosel, etc), ma è anche la tesi di … Massimo Cacciari, da costui avanzata già ancor prima, negli anni Ottanta, quando Fusaro era bimbetto. Ecco perché sarebbe stato interessante che Cacciari ne avesse parlato. Il filosofo veneziano asseriva già nel 1988: «Gentile ha mostrato come per Marx la verità del pensiero consista nel suo verificarsi, come ci sia assoluta identità fra teoria e prassi, come il vero filosofo sia il politico» e inoltre «la filosofia di Gramsci, e il suo stesso marxismo, sono di pura marca gentiliana».
Sarebbe stato interessante un duetto fra i due: ma Cacciari ha preferito battibeccare con la Santanché e Fusaro con Valentina Nappi.
***
Un’ultima annotazione. Questo libro su Gramsci è del 2015. Subito dopo Fusaro è letteralmente esploso con la pubblicazione di una serie di testi che vanno dal nuovo ordine mondiale capitalistico al nuovo ordine erotico, testi che hanno avuto larga risonanza nei media. Se si tentasse un catalogo dei temi e del frasario dell’ultimissimo Fusaro, troveremmo termini quali evaporazione del padre, élite turbomondialiste e iperfinanziarie, individualizzazione capitalistica, mondialismo sentimentale e frasi come quella celebre del “plusgodimento erotico” e il neoliberismo sessuale che sembrano collocare Fusaro nella scia di un Marinetti parolibero più che di un Gramsci o di un Gramsci marinettizzato.
All’epoca di questo testo il nostro Hidalgo era dopotutto ancora a casa con i suoi libri di cavalleria, non s’era fatto egli stesso Cavaliere e non lo si era visto varcare l’uscio e andare incontro alla vampa ustoria del sole della Mancha dei Media e dei Social a combattere le sue innumerevoli battaglie intellettuali.
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Diego Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di esistere, Feltrinelli 2015
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