Filosofia
Il corpo della musica e la liquidità del ricordo
Caro Cigno Nero,
L’estate scorsa sono tornato per qualche giorno nella mia città natale. Città che sento al tempo stesso estranea e rassicurante. Fra le tante cose che volevo fare, era mia intenzione recuperare un vecchio compatto stereo degli anni 90. Il mio primo, unico ed inimitabile impianto stereo. Con il quale ho avviato i miei primi approfondimenti nel mondo della musica. Chiesi quindi a mio padre di accompagnarmi al deposito dove teneva tutta la roba accantonata ed archiviata alla meno peggio negli ultimi 50 anni. Intercettammo subito il compatto stereo e lo ritrovammo tutto impolverato dall’inattività degli ultimi 20anni. Oltre ai miei vinili, mi imbattei anche in qualche vecchia musicassetta con delle compilation fatte da me. La cassetta della musica. Pomeriggi interi ad ascoltare la radio per creare la playlist perfetta dettata dal caso. Pomeriggi immensi. Ed in tutta questa immensità ho pensato al misterioso potere rassicurante del vintage. Dell’oggetto sopravvissuto al tempo ed arrivato fino ai giorni nostri per ricordarci chi siamo e che strani oggetti hanno accompagnato la nostra crescita. Un’analisi sul tempo e sull’oggetto presenti in quel momento ma provenienti dal passato. Sono rientrato nella città in cui vivo. Ho ripulito tutto il compatto stereo dalla polvere. È un po’ invecchiato ma il fascino è rimasto intatto, anzi è aumentato. Ho riascoltato alcuni vecchi vinili e non ho saputo resistere alla tentazione di ascoltare qualche compilation fatta da me in quei lunghi pomeriggi anni 90. Quando i nastri hanno cominciato a girare, ho rivissuto momenti e rivisto volti, sentito emozioni e ricordato parole. In cosa è differente rispetto ad oggi quella musica proveniente da oggetti impolverati?
Bruno Damiani
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Caro Bruno,
Girando tra i mercatini delle pulci in Russia è possibile imbattersi in insoliti oggetti: le rëbra ovvero i “vinili sulle ossa”. Dopo la seconda guerra mondiale e prima della caduta del muro di Berlino, nell’Unione Sovietica di Stalin era vietato importare e condividere musica straniera. Così, alla fine degli anni 50 Ruslan Bogolowskij e Boris Tajgin fondano il Club del Cane d’oro, uno studio di registrazione clandestino. Con uno speciale tornio e servendosi di strumentazioni militari, ricavano, dalle lastre delle radiografie di cui gli ospedali si disfano, dei dischi a microsolco (con un buco al centro fatto con una sigaretta) sui quali registrano la musica censurata dal regime. La qualità del suono di questa “musica sulle costole” – chiamata così perchè incisa letteralmente sulle immagini delle ossa dei pazienti – era tutt’altro che buona e i dischi si rovinavano velocemente, ma, oltre ad avere un costo decisamente inferiore rispetto ai vinili veri e propri, potevano essere facilmente trasportati sotto i vestiti senza il rischio di venire scoperti. Dalla seconda metà degli anni 60, con l’avvento del nastro magnetico, diventando difficile imporre divieti sulla diffusione della musica, questo mercato clandestino andrà scomparendo.
Tra gli oggetti sopravvissuti al tempo, quelli che abbiamo reso orfani – per usare un’espressione cara a Remo Bodei – come i vinili e le musicassette, lasciati a impolverarsi in un deposito o riposti in soffitte e cantine, hanno in comune con i “dischi sulle ossa” una cosa precisa: la musica che ha corpo, o meglio ancora, che è corpo perché, prima di trasformarsi in invisibilità del suono permettendoci quell’esperienza unica, quasi estraniante, di ascolto, ha origine nella concretezza degli strumenti da cui nasce e dei supporti che la catturano per noi. O almeno così era fino al passaggio dall’analogico al digitale, che ha anche segnato la fine di una musica che ci portavamo addosso nonostante fosse meno “portatile” rispetto a oggi, una musica “solida” non solo per il suo stato materico che ha trovato forma in vinili, cassette e impianti stereo, ma per la sua consistenza data da una gestualità che inaugurava e scandiva il tempo dell’ascolto.
Cosa è cambiato da quando i suoi supporti sono diventati vintage e ha smesso di essere oggetto, da collezionare, scambiare o donare? È diventata “liquida”, e in questo suo nuovo stato ha sì acquisito un potere di diffusione e condivisione maggiore, ma ha perso irrimediabilmente qualcosa.
Il segnale musicale tradotto in formato analogico dava una corrispondenza esatta tra la forma d’onda e quella della musica che si voleva incidere. Il risultato era un suono “impuro” che includeva un sottofondo fatto di rumori come il trascinamento del nastro sulle testine o le diminuzioni e le accelerazioni di velocità, rumori che però costituivano il fascino di un suono caldo che si imparava ad ascoltare. Il digitale, eliminando tutti i difetti della macchina analogica, ci restituisce una musica perfetta nella sua purezza, che però non ascoltiamo più, con il tempo giusto, la disposizione giusta, l’orecchio dedicato. Quello che le manca, tra le altre cose, è l’impegno che richiedeva, che la preparava, che la rendeva possibile. L’illusione del digitale sta nel farci credere che tutto possa essere ascoltato da tutti. Ma la musica liquida è una musica che sentiamo, dove quel sentire ha poco a che fare con il sentimento, perché riesce a coinvolgere soltanto uno dei nostri sensi: l’udito. Invece i vinili e le musicassette erano oggetti sentimentali potentissimi, oggetti da tenere tra le mani, sulle cui copertine posare lo sguardo in cerca di dettagli o particolari che potessero nutrire la nostra curiosità, che avevano il loro odore che non somigliava a nessun altro odore al mondo, ed erano in grado di farci assaporare il momento. A loro abbiamo dedicato tempo e attenzioni, nella speranza che la cura sofisticata nel pulire, maneggiare e riporre correttamente ogni disco, così come quella più improvvisata e creativa che ci ha fatto riavvolgere i nastri delle nostre playlist preferite con una bic, potesse prolungare la loro vita. Perché in fondo questi oggetti erano prolungamenti di noi, e lo erano soprattutto per la loro fragilità, così simile alla nostra, per il loro invecchiare che è anche il nostro, per il rischio di incepparsi, cancellarsi, graffiarsi, incurvarsi, che è un rischio fin troppo umano. Ma di correre quel rischio valeva la pena, perché lo dobbiamo anche a cose come queste, cose affettivamente rassicuranti al pari dell’oggetto transizionale di Winnicott, se abbiamo imparato l’attesa, ad essere pazienti e a farci sorprendere. Lo abbiamo imparato in quei “pomeriggi immensi” creando la “playlist perfetta dettata dal caso”, tutte le volte che abbiamo inserito una monetina nel Jukebox aspettando che fosse il turno della nostra canzone, o quando abbiamo acquistato l’ultimo album del nostro artista preferito e non vedevamo l’ora di tornare a casa per scoprire se ci sarebbe piaciuto come il precedente. Lo abbiamo imparato ogni volta che ci siamo dovuti alzare per ascoltare il lato b di un vinile, e quella volta che, dopo un intervallo di silenzio in cui la cassetta sembrava essere finita, sono arrivate le prime note ad annunciare la ghost track.
Oggi c’è la musica in 8d, di cui possiamo fare esperienza infilandoci un paio di auricolari, e che è forse l’esempio più emblematico dell’immaterialità in campo musicale. Attraverso il cosiddetto “effetto cerchio” la musica sembra fare il giro della nostra testa passando da un orecchio all’altro. Il risultato di questo inganno sensoriale è quello di sentirsi circondati dal suono, come se provenisse da diversi punti dell’ambiente circostante invece che dalla superficie degli auricolari; cosa che, se ci pensiamo, è un bel controsenso rispetto alla originaria funzione di strumenti di ascolto che abbiamo più volte usato per isolarci dal resto del mondo, per rimanere da soli con i nostri “pezzi” preferiti.
Il ritorno del vinile, e quello della musicassetta ancora in fase sperimentale su crowdfunding, ci dicono che in quel legame inscindibile tra musica e memoria musicassette e vinili sono diventati le nostre madeleine, perché, pur essendosi trasformati in prodotti irriducibilmente digitali nell’attuale mercato musicale (ad eccezione della coraggiosa impresa della Dirt Tapes, etichetta che ha fatto davvero risorgere l’audiocassetta), di loro ha bisogno la nostalgia, di loro abbiamo bisogno per ricordare. Ricordare che dietro ogni cassetta incisa e sovraincisa sacrificando qualcosa, dietro ogni compilation archiviata per la fine di un amore, dietro quel disco su cui la puntina saltava ripetutamente, ha preso vita quel “processo di allargamento di una cosa che ne contiene altre e che ci ha fatto identificare”, come scrive Massimo Mantellini a proposito dei dieci splendidi oggetti morti tra cui c’è anche il vinile. Questo ritorno, al di là dell’ operazione di marketing incentrata sulla nostalgia, ci dice che orfani non sono diventati solo gli oggetti che erano i custodi della nostra musica, ma un po’ lo siamo diventati anche noi, da quando sono scomparsi i fili che a loro ci tenevano uniti e quella musica si è sparsa ovunque, facendoci perdere il senso del tempo, la capacità di fermarlo per la durata di una canzone e di trovarlo per dedicarci a quell’ascolto in cui finivano tutti i nostri sensi.
La musica analogica aveva una origine tangibile che lasciava traccia di sé: il nastro matrice, con le piste per ogni strumento, poi riversato sulla “lacca”, lo stampo da cui venivano realizzati i dischi. Aveva una ritualità che non ci appartiene più e che era veicolo di identità. Era una musica che ci sentivamo davvero fin dentro le ossa, che risuonava nella nostra gabbia toracica facendoci sentire inspiegabilmente liberi. Il digitale ci ha consegnato una musica oltremodo disponibile ma non collezionabile, che non richiede nessuno sforzo se non quello di un dito per scorrere distrattamente la nostra playlist; una musica evanescente che non può diventare ricordo perché incessantemente sostituita dal nuovo, dal “meglio”. Una musica potenzialmente eterna, grazie agli archivi digitali, ma senza origine, e che non potrà mai essere colonna sonora della nostra vita, che è invece finita e imperfetta, con i suoi rumori di fondo, il suo incepparsi che ci costringe alla manutenzione, ma che proprio per la sua imperfezione, che non toglie ma aggiunge, ci dà la possibilità di improvvisare come nelle jam session. Perché la nostra vita resta analogica, nonostante tutto, con quella sua gestualità che ci fa rispolverare i significati, con tutte le stonature a cui ci affezioniamo per la loro capacità di dirci altro. Perché prenderci cura delle cose vuol dire prenderci cura di noi, che intorno a quelle cose abbiamo inciso pezzi della nostra storia.
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La società liquida per Bauman è quella in cui, persi i punti di riferimento, tutto si dissolve, per lasciare spazio all’apparenza e a un consumismo privo di possesso, laddove l’oggetto che appaga nell’immediato diventa subito obsoleto. Così la musica liquida rende obsoleti quegli oggetti che avevano ben poco a che fare con l’apparire e il consumismo, ma sicuramente avevano un valore difficilmente sostituibile, perché innanzitutto affettivo. È possibile che anche la musica abbia perso i suoi punti di riferimento perdendo gli oggetti che la custodivano?
Maria Luisa Petruccelli
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