Costume

Il consenso che fa rumore e la paura del silenzio

27 Maggio 2022

Caro Cigno Nero,

recentemente, al funerale di una persona molto cara, ho dissentito profondamente dai molti che applaudivano un amico sincero del defunto che leggeva, frenato dalle lacrime, il suo saluto; ma addirittura sono stata ancor più infastidita dal “coro” unanime di applausi chiaramente indirizzati alla bara che veniva portata fuori dalla chiesa, dopo il rito funebre.

Poi mi sono imbattuta in un breve articolo, sul Corriere della Sera, scritto da Aldo Grasso: “Gli applausi meritati e quelli fuori tempo”.

Passino i 55 applausi a Sergio Mattarella, passino gli applausi del pubblico a comando, continui e spesso a sproposito, nei talk show; ma, applaudire in chiesa, come cantare (forse la migliore forma di preghiera) non mi sembrano sempre fuori luogo o fuori tempo.

Riflettendo meglio sul mio fastidio provato per gli applausi al funerale, non condivido la definizione di “indecorosa usanza”. Forse è proprio la “paura del silenzio” di cui parla lo stesso Grasso, a far scoppiare, stranamente all’unisono, quell’applauso che probabilmente ha la funzione di esprimere (invece che parole sempre sbagliate o inadeguate in una tragedia) un segno di stima, affetto, ammirazione, omaggio alla persona ora immobile, che sta uscendo di scena, a conclusione della “commedia umana”.

E’ possibile che sia proprio l’incapacità di vivere il silenzio, nei momenti belli o tristi, o di riflessione, a spingere le persone a sperimentare empaticamente una condivisione così eclatante? 

Ester

 

 

Cara Ester,

forse non è un caso che l’applauso, quando proviene non da un pubblico ma da una singola persona, sia sempre sarcastico. Ma facciamo un passo indietro, per allargare un po’ la prospettiva.

Il 7 ottobre del 1791, subito dopo la rappresentazione pubblica del Flauto Magico, in una lettera a sua moglie Costanza, Mozart scrive: “torno ora dall’opera, il teatro era affollato come sempre […] quello che mi fa più piacere è l’approvazione muta! Si capisce bene quanto quest’opera stia conquistando sempre più la stima del pubblico”.

Niente di più impensabile per noi, che temiamo il silenzio, come scrivi, ancor più dei fischi. Ma perché non riusciamo a comprendere il senso di una approvazione che non fa rumore, se per Mozart sembra essere addirittura la più alta e pertinente forma di omaggio possibile? Perché il silenzio ci fa così paura?

Pare che l’applauso sia un impulso inconscio del nostro cervello che ci permette di scaricare l’eccesso di energia accumulata attraverso le emozioni; nel tempo però si è trasformato in un gesto convenzionale dettato dalle norme sociali, lasciando sullo sfondo l’aspetto emotivo, riservato a sporadiche occasioni. In sostanza applaudiamo alla fine di una rappresentazione teatrale o di un concerto indipendentemente da quanto intimamente ci abbia commosso o entusiasmato, e allo stesso modo battiamo le mani prima, durante e dopo un comizio politico o un certo tipo di eventi a prescindere da quanto ci abbiano coinvolti o convinti le parole udite. Questo condizionamento non risparmia nemmeno chi sta di fronte al pubblico, che il consenso lo cerca e lo misura dal fragore e dalla durata del battito di mani. Era così già nella Grecia del V sec a.C. e nella Roma antica, dove, dalla scena teatrale a quella politica, attori, imperatori, tutti, compresi gli uomini di chiesa, avevano bisogno della pubblica approvazione, di un’approvazione da opporre al silenzio vissuto come imbarazzante. Proprio l’imbarazzo associato al silenzio sembra dirci perciò che l’applauso ci toglie da un disagio, quello di uno spazio e di un tempo che, restando vuoti, ci mettono in contatto con l’assenza. Che sia comprato, finto come quello all’interno di una laff box, formale, sollecitato o spontaneo l’applauso – ad eccezione di quello che in Mesopotamia aveva lo scopo di coprire i lamenti delle vittime sacrificali nei riti religiosi – resta una forma di comunicazione, che, in quanto tale, esclude l’assenza.

È possibile allora che del silenzio ci spaventi proprio il nostro senso di impotenza di fronte all’assenza? Dopotutto, il silenzio è stato per lungo tempo considerato, ad eccezione dell’ambito mistico-religioso, come assenza di comunicazione. Solo a partire dal Novecento diventa oggetto di studio e interesse in campo antropologico, linguistico, psicoanalitico, poetico e filosofico. E così scopriamo che sono tante e diverse le sue dimensioni: da quella dolcemente consolatoria a quella che ci fa sperimentare una terribile cupezza. Perché attraverso il silenzio esprimiamo compassione, soddisfazione, complicità, ma anche presunzione, disprezzo o umiltà; di lui possiamo farci scudo o arma per ferire. Sta fuori ma può abitarci anche dentro. E poi c’è quel silenzio che fa rumore, e che per noi, che di rumore ci siamo ammalati, è forse il più difficile da sostenere. Resta il fatto che il silenzio come entità reale di segno positivo (cioè non come assenza di comunicazione) è scomparso dalle nostre vite, portando via con sé anche l’ascolto, visto che per ascoltare, anche sé stessi, bisogna restare in silenzio. E senza ascolto non c’è comprensione.

Un pubblico che applaude a comando o ad ogni frase di un discorso a cui assiste, come nel caso di Mattarella, interrotto da 55 applausi (sì, interrotto), è ancora un pubblico capace di ascoltare e quindi comprendere? Allora verrebbe da pensare che certi applausi abbiano a che fare più col processo di nevrotica identificazione amorosa, descritto impeccabilmente da Roland Barthes, che con l’attenzione partecipata che ha nel silenzio la sua premessa: un’ “identificazione generalizzata, estesa a tutti coloro che circondano l’altro e […] beneficiano di lui”, ognuno dei quali, “identico agli altri, sembra gridare: è mio! è mio!”. E se non tutti gli applausi si equivalgono, perché, ad esempio, si può applaudire per pura gioia o per un profondo senso di liberazione, dobbiamo comunque riconoscere che alcuni di essi rischiano di diventare una ridondanza che ribadisce la nostra presenza come pubblico, una sorta di monologo collettivo, in cui ognuno, con la medesima azione, la più immediata e l’unica apparentemente possibile, si oppone allo starsene “con le mani in mano”, e così facendo dice: “sono qui, partecipo, esisto”.

Dal momento che l’applauso appartiene alla dimensione pubblica, e quindi anche politica del vivere, rappresentando una forma corale di consenso, può essere interessante prendere in considerazione il suo rapporto col dissenso, proprio quel dissenso che rende visibile ed effettiva la democraticità del pensiero nel dialogo collettivo. L’ applauso può essere democratico? Non secondo Norberto Bobbio, che a proposito dell’elezione per acclamazione di Bettino Craxi ha detto: “L’acclamazione è uno dei tanti modi di soffocare il dissenso, e dove il dissenso non è libero […] o se è espresso non è né percepibile né conteggiabile, anche il consenso viene svilito e perde la sua forma legittimante”. Insomma, se c’è qualcuno tra il pubblico plaudente che se ne resta con le mani conserte, quel qualcuno diventa invisibile, perché il non applauso non è percepibile. Sembra dunque che il rumore sia destinato ad averla vinta sul silenzio. Anche perché al silenzio “pieno”, fatto di presenza e vicinanza, siamo stati disabituati con la complicità del mondo digitale, così carico di aspettative legate al suono delle notifiche che riempiono e scandiscono ogni spazio e ogni momento delle nostre giornate. E così alla sua veste più minacciosa abbiamo perfino dato un nome: il ghosting, l’imposizione di una assenza incomprensibile e ingiustificata ai nostri occhi, che ci rivela ancora una volta quanto la nostra incapacità di vivere il silenzio nasconda in fondo il timore di una assenza che ha il sapore della disapprovazione. E se, di contro, è diventato per noi normale esprimerci in maniera eclatante, nel mondo reale come in quello virtuale, esiste tuttavia una dimensione in cui silenzio e approvazione vanno di pari passo: è l’applauso silenzioso nella lingua dei segni che, se è vero nasce dall’impossibilità di sentire il suono di mani che battono, e perciò sposta dall’udito alla vista il canale del suo senso, ci mostra, in quel tipo di gestualità, che le mani possono essere non solo un prolungamento di noi verso l’esteriorità, con cui proviamo a plasmare il mondo a nostra immagine, ma anche espressione di leggerezza, che ci pone su un altro piano rispetto a certe competizioni, certi possessi, certe prepotenze. Almeno, è questa l’idea che mi hanno sempre suscitato tutte quelle mani alzate al cielo mentre roteano con discrezione.

Forse anche all’applauso c’è bisogno di educarsi, per non svilire la sua potenza simbolica e riconoscerne la bellezza. La bellezza di applausi che si fanno sentire perché prima di tutto sono sentiti, con tutte le sfumature possibili, da ogni singolo paio di mani che, come ogni singolo strumento di un’orchestra, danno vita ad una melodia, che è altra cosa rispetto al rumore.

 

 

 

Ho volutamente lasciato per ultimo il contesto funebre, perché credo che meriti una riflessione a parte. Pare che il primo applauso durante un funerale sia stato rivolto alla salma di Antonio de Curtis, in arte Totò. Ma pare anche che il principe della risata di funerali ne abbia avuti tre. Proprio al suo terzo funerale, avvenuto tre mesi dopo la sua morte, gli applausi furono quindi indirizzati ad una bara vuota. L’ironia che si cela, quasi a sottolinearne il forte contrasto, dietro un applauso rivolto ad una doppia assenza, quella di una persona che non c’è più e quella di una bara vuota, può forse dirci qualcosa sul senso del nostro battere le mani per esorcizzare la paura del silenzio?

 

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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