Filosofia

Il capitalismo è morto, ma la politica non se ne è ancora accorta

26 Dicembre 2020

Mentre le aziende voltano pagina, sconfessando mezzo secolo della storia, soprattutto nel centrosinistra si fatica a tenere il passo con un cambiamento certamente spiazzante, ma che necessita di riferimenti e rappresentanza

Immaginate di riguardare per l’ennesima volta il leggendario film “Wall Street” e che a un certo punto il cattivissimo Gordon Gekko vi sorprendesse cambiando la sua storica battuta in “Greed is not good anymore”.

Rimarreste a bocca aperta, vero? Eppure qualcosa di molto simile è successo nella vita reale, non in un copione recitato da Michael Douglas.

“Siamo convinti che il capitalismo così come è stato progettato prima e sviluppato negli ultimi anni, in maniera sempre più focalizzata sugli interessi degli shareholder, abbia terminato il proprio percorso”. Chi lo ha detto? Non un nostalgico veterocomunista, ma il manager di una multinazionale: Fabrizio Gavelli di Danone, partecipando al webinar organizzato da Ruling Companies sulle B-Corp. Il senso che si è ricavato dai numerosi interventi autorevoli nel dibattito è che “per le aziende il profitto non è più l’unica legge”.

Un punto di vista veramente disruptive, al quale la politica non sembra ancora preparata. In questo caso, sono le aziende a guidare la rivoluzione, individuando il proprio futuro nelle “B-Corp”: il termine è la contrazione di “Certified B Corporation” e indica quelle aziende che, pur mantenendo una natura profit, si impegnano a perseguire determinati standard di performance, trasparenza e responsabilità, operando in modo tale da ottimizzare il proprio impatto positivo sia verso l’ambiente circostante che verso i propri dipendenti.

Ed è così che le oltre 3.400 aziende nel mondo ad aver raggiunto questo status (in Italia sono un centinaio) stanno guidando la transizione verso un nuovo radicalmente modo di intendere il business. La posizione di Gavelli non è affatto isolata: anche tra le insospettabili multinazionali americane si ritiene che la crisi del capitalismo sia ormai irreversibile e che vada abbracciato un nuovo paradigma.

Marxismo fuori tempo massimo? No, ovviamente, ma in maniera decisamente iconoclasta si è rimesso in discussione il totem rappresentato dal pensiero di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, secondo il quale l’unico obbligo di un’azienda privata consiste nel massimizzare i profitti per i propri azionisti. Se per farlo non viola la legge, tutti i suoi obblighi sono esauriti con successo e senza alcun dilemma etico.

Gli effetti collaterali di tale visione erano già emersi a cavallo gli anni ’50 e ’60, quando le crescenti sperequazioni sociali spinsero le aziende più abili nella comunicazione strategica a varare il concetto di “Corporate Social Responsibility” come strumento compensativo delle criticità sociali, economiche e ambientali provocate o esasperate dal capitalismo.

Ma oggi le operazioni di facciata non bastano più ed è su questo substrato culturale che Thomas Piketty si è spinto ad invocare “un nuovo socialismo”. E nell’agosto del 2019, quando ancora il Covid-19 e i suoi effetti sull’economia erano inimmaginabili, un gruppo di 181 aziende di primaria importanza (tra cui Apple, Fox, Siemens, Procter & Gamble, Mastercard e PWC) si sono riunite nell’US Business Roundtable e hanno prodotto un documento dal titolo “Rivisitazione degli scopi di un’azienda”.

Un position-paper che ha messo spietatamente in luce la crisi del modello economico americano: “Ha elevato gli standard di vita per generazioni, promuovendo la concorrenza, la scelta del consumatore e l’innovazione. Le aziende americane sono state un motore fondamentale del suo successo. Però sappiamo che troppi americani stanno soffrendo. Troppo spesso il duro lavoro non viene compensato e non si fa abbastanza per permettere ai lavoratori di adattarsi ai rapidi cambiamenti dell’economia. Se le aziende non riconoscono il fatto che il successo del nostro sistema dipende da una crescita di lungo termine ed inclusiva, saranno in molti a sollevare legittime domande sul ruolo dei principali datori di lavoro nella nostra società. E’ sulla base di queste preoccupazioni che Business Roundtable ha deciso di modernizzare i suoi principi sul ruolo dell’azienda”.

Da queste premesse nascono strumenti come la “politicizzazione del marketing”, che vede le aziende prendere posizione su temi divisivi rompendo gli indugi del passato, allo scopo di creare con il proprio pubblico un legame sempre più profondo, basato sulla condivisione di principi etici. Nello stesso modo va letta l’evoluzione della classica “Corporate Social Responsibility” (CSR) in “Political Corporate Social Responsibility” (PCSR), ma soprattutto colpisce come siano gli operatori economici ad aver mandato in pensione il capitalismo, realizzando il sogno rimasto tale per tanti politici progressisti.

Questi ultimi, al contrario, paiono addirittura faticare a tenere il passo con questi cambiamenti, anche da semplici osservatori. Chi dà rappresentanza a questi soggetti? Chi propone visioni politiche che le aziende possano abbracciare, in una logica di collaborazione virtuosa? Chi monitora i cambiamenti sociali – e in particolare quelli sul mercato del lavoro – derivanti da questo processo?

Mentre nel board delle più importanti multinazionale si ragiona su quali nuovi strumenti di welfare aziendale introdurre in tempi di Covid-19, diversi leader di centrosinistra sono rimasti al Jobs Act e alle discussioni sull’Articolo 18. Il che, francamente, lascia supporre che siano stati scavalcati a sinistra dai Gordon Gekko della vita reale.

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