Filosofia

Hannah Arendt. Pensare politicamente

2 Febbraio 2015

Hannah Arendt nasce a Hannover, in Germania, nel 1906 e muore a New York, negli Stati Uniti, nel 1975. Già solo le date e i luoghi di nascita e morte presentano la pensatrice politica tedesca, di origini ebraiche, espatriata negli Stati Uniti negli anni del Terzo Reich e a lungo rimasta apolide e perciò priva di diritti politici: questa esperienza si ripercuote sul suo “pensare politicamente”, al cui centro si trova la figura dell’espatriato, dell’uomo senza diritti, dell’uomo che è uscito dalla rete delle relazioni (web of relationships), e che perciò non è parte del «potere potenziale» (power potential), ovvero della polis, costituita di azione e discorso (Arendt 1958, p. 181, tr. it., p. 132).

Nata da una famiglia ebraica benestante, che non aveva legami con il movimento sionista, dopo gli studi liceali a Königsberg (conclusi nel 1924) studia a Marburgo e Friburgo con Edmund Husserl e Martin Heidegger. Nel 1929 conclude con Karl Jaspers il dottorato Der Liebensbegriff bei Augustin (Il concetto di amore in Agostino). A Berlino ottiene una borsa di studio per una ricerca sulla figura di Rahel Varnhagen (Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea) e sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburgo. Nel 1933 il Nazionalsocialismo è al potere: iniziano le persecuzioni antiebraiche. Hannah Arendt decide di abbandonare la Germania: passando attraverso le foreste della Erz,  Praga, Genova e Ginevra giunge a Parigi. Qui conosce Walter Benjamin e Alexandre Koiré. A Parigi aiuta chi emigra in Palestina (presso le organizzazioni Agricolture et Artisan e Yugend-Aliyah). Nel 1940 è costretta ad allontanarsi dalla Francia, dopo essere stata internata nel campo di Gurs dal governo collaborazionista di Vichy in quanto “straniera sospetta”. Rilasciata, si dirige a Lisbona e salpa per New York, dove giungerà nel maggio 1941. Fino al 1951, anno in cui le verrà concessa la cittadinanza statunitense, rimane priva di diritti politici. Nel 1951 pubblica il fondamentale The Origins of Totalitarianism (in tedesco Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, cioè Origini ed elementi del dominio totale). Nel 1958 pubblica The Human Condition (Vita activa. La condizione umana), sfondo teorico in base al quale intendere la fine della politica nel dominio totale. Dal 1957 comincia la carriera accademica vera e propria: ottiene insegnamenti presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York Nel 1961, in qualità di inviata del settimanale “New Yorker”, assiste al processo contro il gerarca nazista Eichmann. Il contrastato resoconto di questa esperienza viene inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese e successivamente proposto in forma unitaria nel 1963, con il libro Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme). Sempre nel 1963 pubblica On Revolution (Sulla rivoluzione), tentativo di esprimere il problema della prassi rivoluzionaria: è l’emergere del “sociale” (ovvero del dispotismo della necessità, ricalcato dal modello della potestas familiare) a far fallire l’ideale di democrazia diretta (la polis e i consigli, secondo il modello di Rosa Luxemburg) presente nei momenti aurorali delle rivoluzioni. Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all’Università scozzese di Aberdeen. Due anni più tardi, durante il secondo ciclo delle “Gifford”, subisce il primo infarto. Il 4 dicembre 1975 muore a causa di un secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York. Il volume teoretico The Life of the Mind (La vita della mente), che analizza le facoltà pensare, volere e giudicare (ma l’ultima parte, che interpreta politicamente la Critica del giudizio di Kant, facendo di immaginazione e giudizio le facoltà politiche per antonomasia, è incompiuta), esce postumo nel 1978.

Questo, dunque, quanto si può schematicamente dire della vita della pensatrice. Nel nucleo del suo domandare vivendo si trova l’aporia, personale e collettiva, della polis: i diritti umani sono inutili per i senza-patria, per gli apolidi, sono infatti riservati ai cittadini. Di qui si sviluppano possibili direzioni di ricerca, che riassumiamo schematicamente:

1)   una genealogia del dominio totale, a partire da antisemitismo e imperialismo, con la conseguente crisi dello stato-nazione quale garante dei diritti del cittadino (poiché masse di umani si trovano senza patria, senza cittadinanza, e la loro unica dimora, ciò che resta, è la madre-lingua);

2)   una fenomenologia dell’azione, che spieghi la crisi della vita politica (discorso e azione) e con essa del mondo comune, della polis, luogo della doxa;

3)   uno scavo nel concetto di rivoluzione, che, degenerando a causa dell’intrusione del “sociale” (ovvero della struttura ricalcata dalla potestas familiare, la dittatura della necessità della produzione e riproduzione esaminata nella politica di Aristotele) nel “politico”, dà luogo al terrore, al rovesciamento di quella che avrebbe potuto essere una democrazia diretta (dei consigli), il cui simbolo è la polis;

4)   un’indagine sulla facoltà dell’immaginazione, ovvero una teoria politica del giudizio.

1) Occupiamoci subito del punto più urgente. In quali situazioni si diffondono e operano i regimi totalitari? Questi sono la conseguenza della società di massa, nella quale gli uomini, atomizzati, sono sradicati da ogni relazione interumana, privati dello spazio pubblico nel quale hanno un senso azione e discorso.

Occorrono, per questa genealogia, lo sguardo dello storico e la prospettiva del politologo, in vista di una narrazione dell’accaduto, di un’articolazione senza indignazione e orrore. Sotto l’aspetto storico-politico si tratta di analizzare i tratti di fondo della storia europea moderna e contemporanea, in particolar modo il periodo dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale; secondo una prospettiva filosofico-politica, di elaborare uno schema del regime totalitario, il quale si riferisca a nazismo e stalinismo come fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo.

La prima premessa del dominio totale esaminata da Hannah Arendt è il fenomeno dell’antisemitismo; la seconda è l’imperialismo (con il suo pendant di razzismo burocratico) esplicitazione delle aspirazioni al dominio economico e politico, nel suo configurarsi dalla fine dell’Ottocento allo scoppio della prima guerra mondiale. Se si coniugano le conseguenze dell’antisemitismo con la crisi dell’imperialismo alla fine della prima guerra mondiale si delinea chiaramente la genesi del regime totalitario nazista e stalinista: la società senza classi e quella della razza ariana (che esclude tutte le altre) si realizzano come società di massa (nell’ambito di un processo di nazionalizzazione delle masse), in cui gli individui sono soggiogati dalle élites, ristretti gruppi di potere dispotico. Il binomio ideologia-terrore instaura il fenomeno totalitario nella società di massa: ne è l’essenza.

Il terrore si esercita attraverso la polizia segreta (vero e proprio centro di potere ben al di sopra del partito unico che crea una società di spie nella quale scompare qualunque intimità) e tramite i campi di concentramento e di sterminio, per mezzo della definizione, dell’estraneazione, della deportazione, dell’internamento e dell’annientamento di chi viene di volta in volta definito come “nemico”. Il campo, l’inferno in terra, è possibile tramite la creazione di esseri umani superflui (di volta in volta il borghese, il kulak, il nemico del popolo, l’antirivoluzionario, l’ebreo) e senza nome, parto dell’ideologia. Quest’ultimo è il tratto che distingue il totalitarismo da qualunque tipo di dispotismo, tirannide o dittatura. L’ideologia (che ha la sua base negli stereotipi e nei pregiudizi ma da questi si differenzia in profondità) è la pretesa di conoscere a priori tutti i segreti della storia (sono famose le predizioni di Hitler e Stalin, famose perché si autoavverano, con l’aiuto dei campi, del terrore, delle purghe ed eventualmente della manipolazione della storia). Non necessita del confronto con fatti concreti: mira direttamente al controllo  e alla trasformazione della natura umana, capovolgendo le norme della logica.

Il tentativo di rendere superflui gli esseri umani corrisponde alla situazione delle masse moderne, divenute effettivamente “superflue”. Ci si trova in una società dei morenti, nella quale la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con il benché minimo reato; dove il lavoro coatto dà luogo a uno sfruttamento senza profitto, a un lavoro senza un prodotto. Ogni giorno l’ideologia crea il non-senso. E crea una nuova logica: se gli umani sono diventati superflui, nei campi, passando dallo status di non-tedeschi a quello di ebrei, espatriati, internati, allora essi si trasformano in “parassiti” che è “lecito” eliminare, sterminare, schiacciare senza alcuna punizione. Chi commettesse questi atti al di fuori di questo costante e voluto stato d’eccezione, commetterebbe un crimine. Al suo interno, il diritto è sospeso. La distruzione del senso impone un supersenso, scopo e chiave della storia per le ideologie, opinioni acritiche, arbitrarie, ma che portano alla fede, quando si è persa la capacità di agire e giudicare. La follia è la stessa logica totalitaria: fede nella redenzione, devozione senza riflessione, fanatismo che racchiude in sé il disprezzo per la realtà e la fattualità.

Quali sono gli strumenti dell’organizzazione? Il partito unico e la polizia segreta, controllati direttamente dalla volontà del capo, unica legge del partito. La “volontà del Führer”, non i suoi ordini, sono le leggi totalitarie. A questo corrisponde l’isolamento totale e la completa estraneazione delle masse di individui, senza i legami della polis, e, quindi, non più cittadini.

La distruzione della vita politica, che consiste di relazioni e rapporti, distrugge anche la vita privata, creando l’ambito in cui si può concretizzare effettivamente la dimensione dell’homo homini lupus, non perché questa sia l’essenza dell’uomo, ma perché questo è il risultato. E nessun sistema politico è totalmente immune dal rischio totalitario, neanche le democrazie, che rischiano costantemente di precipitare in tragedie, come nel caso del “maccartismo”, che Hannah Arendt ha vissuto in prima persona, o come nel caso dei campi di detenzione provvisoria, a noi contemporanei, territori al di fuori della giurisdizione degli stati, eccezioni sparse su tutto il pianeta, dove i “diritti umani” sono sospesi. Per trovare un antidoto, occorre rifondare la politeia perduta. Ma che cos’è? Come è?

2) La polis (ma la polis dell’antica Grecia non è una sorta di modello ideale), la dimensione politica dell’uomo, scompare con il dominio totale. Richiamandosi a questa dimensione possibile, Hannah Arendt la configura come una critica dell’espropriazione dei diritti di cittadinanza e della distruzione della democrazia diretta, cioè della politica per antonomasia. A partire dalla fine della polis l’agire (e con esso la civiltà dell’azione e del discorso) è stato sostituito prima dal fare e poi dal lavorare, teso ad assicurare la mera sopravvivenza.

Il totalitarismo e la banalità della sua vita quotidiana hanno le loro cause nella fine della vita activa. Quest’ultima si distingue dalla vita contemplativa ed è con essa uno dei modi fondamentali della “condizione” (non della “natura”) umana, che si potrebbe invece esprimere così: “gli uomini sono condizionati”. Le condizioni (che rielaborano politicamente e fenomenologicamente gli “esistenziali” del maestro Martin Heidegger) sono la vita, la natalità, la mortalità, la mondanità, la pluralità e la terra. La vita activa, l’agire umano è articolabile in: attività lavorativa (l’uomo come animal laborans); operare (homo faber); agire (zoon politikón).

Il lavoro rende l’uomo animal laborans, cioè colui che provvede al mantenimento della propria o dell’altrui vita (lo schiavo), senza produrre oggetti duraturi (il lavoro si consuma per provvedere alle necessità della vita, non ha mai fine, sino a che dura la vita).

La produzione (l’opera) è l’attività che corrisponde alla dimensione non-naturale dell’esistenza umana. Il frutto della produzione è un mondo “artificiale” di cose, distinto dall’ambiente. È tipico dell’homo faber, si è sviluppato con la società moderna e con l’uomo tecnologico. L’opera delle mani è distinta dal lavoro del corpo.

L’azione, invece, tipica dello zoon politikon è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, e corrisponde alla dimensione umana della pluralità: uomini, non l’uomo, abitano il mondo. E la pluralità è la sola conditio sine qua non e conditio per quam della vita politica.

3) La prassi politica, grazie alla quale gli uomini comunicano tra loro attraverso il linguaggio e le azioni, è sicuramente ben rappresentata dalle immagini della polis greco-romana, che esaltano l’interazione comunicativa dei liberi cittadini, partecipi diretti della vita pubblica.

La città-stato significò una seconda vita oltre a quella domestica della oikía, oltre la vita privata. L’azione (la praxis) e la lexis (il discorso) erano l’essenza dell’agire politico. Discorso e azione erano coesistenti. Trovare le parole opportune, al momento opportuno, significava agire (proprio nel senso performativo della filosofia del linguaggio novecentesca). La mera violenza, invece, è muta. Essere politici significava abbandonare la muta violenza e riporre ogni fiducia nella forza persuasiva del discorso (non una logica fredda come l’acciaio, profetica, tipica dell’ideologia totalitaria, che non lascia spazio all’argomentazione).

La sfera della necessità e della costrizione era quella pre-politica, della famiglia, dove il padre esercitava (a diversi livelli) il potere dispotico sugli schiavi, la donna, i figli. Nella sfera pre-politica, dove regnava la necessità, vi erano gli schiavi, sorta di strumento animato, non-uomini; nella polis, solo uomini liberi. Proprio il soddisfacimento delle necessità nella sfera domestica garantiva l’esistenza della polis, unico luogo dell’esistenza politica, unica sfera della libertà, condizione essenziale per l’eudaimonía. Essere poveri o malati significava essere soggetti alla necessità fisica, essere schiavi significava essere soggetti alla violenza umana. Tale è l’ambiguità della polis, che tiene presente la “necessità naturale” (per cui esistono gli schiavi) e la superiorità della “vita libera” (dei cittadini). La fine del primato della vita attiva a vantaggio della vita contemplativa corrisponde a un processo di negazione della vita attiva dal suo interno, a una scomparsa dell’agire politico nella sfera indistinta del fare.

Dal dubbio cartesiano nascerà, secondo Hannah Arendt, la nuova epistemologia, che abbandona il tentativo di comprendere la natura e le cose non prodotte dall’uomo, per volgersi solo ai prodotti umani: è il trionfo dell’homo faber. Se l’agire politico era stato sconfitto dalla vita contemplativa con il cristianesimo, l’homo faber cede però il posto all’animal laborans, al primato dell’attività che ha come scopo solo la conservazione della vita. Nel mondo contemporaneo l’agire politico si è fatto impossibile. E l’attività di produrre lascia il posto al darsi da fare per sopravvivere.

La fine della politica trasforma gli umani in esseri superflui, in impiegati e burocrati, in persone che si adattano a eseguire, diligenti e muti, compiti determinati. Questa è la figura tramite la quale il dominio totale celebra il suo trionfo: il tipo attonito e tranquillizzato, anestetizzato, che cerca solo di far carriera nella burocrazia, che conosce solo la lingua della burocrazia (Amtsprache), sottomesso e incapace di resistenza, che compie il male come se fosse la cosa più banale, per una semplice conseguenza logica (che mai e poi mai indagherebbe sulle sue premesse). In questo modo si crea la banalità del male.

La polis appare allora come il luogo del pensiero: la creazione totalitaria dell’individuo apolide tenta di togliere la parola, la vita comune, la capacità di pensare. Il diritto di parlare francamente, la libertà di parola che valeva nell’antichità greca, era uno dei diritti dei cittadini, diritto assente nella oikia. La polis, cioè l’ambito politico, non familiare, libero, non dispotico, è allora presentato da Hannah Arednt come il modello dei momenti iniziali delle rivoluzioni: è il concetto di resistenza, la sopravvivenza dei momenti aurorali, la capacità di un inizio che si trova in tutte le rivoluzioni (poi tradite dall’abbandono del discorso e dell’agire plurali, dalla fine della democrazia diretta). L’inizio è il ruolo politico del pensiero: il giudizio.

4) Il giudizio è una caratteristica della vita politica e insieme della vita della mente. Dopo il pensiero e la volontà, il giudizio è al centro della questione politica, perché l’orrore primario del totalitarismo, che ha reso reale l’impossibile, è la perdita degli strumenti di comprensione, negli attori e negli interpreti. La capacità di giudicare assume la sua funzione quando il metro del giudizio viene meno. Il tentativo di comprendere il totalitarismo, il bisogno di giustificare il giudizio sul caso Eichmann, il quale è totalmente incapace di giudicare al di fuori degli schemi della sua maschera da burocrate, vengono posti in relazione con la facoltà dell’immaginazione: solo l’immaginazione permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto. Eichmann, nella sua penosa logica burocratica, nega di aver saputo, afferma di aver svolto solo una parte del compito, sebbene non possa negare di essere stato consapevole che il suo dipartimento forniva l’apparato amministrativo e logistico indispensabile allo sterminio, in cui funzionari, tecnici, scienziati, impiegati, ciascuno nel suo ambito svolgevano coscienziosamente il loro lavoro – “Ero competente e svolgevo il mio lavoro dietro una scrivania, facevo il mio dovere conformemente agli ordini. Non ho mai avuto rimproveri per non aver compiuto il mio dovere o per aver mancato in qualcosa nel fare il mio dovere.” Preciserà, alla fine del processo di Gerusalemme, Eichmann – mettendo in atto procedure di routine, risolvendo problemi pratici, utilizzando codici linguistici – evacuazione, trasferimento, reinsediamento, trattamento speciale, procedura, soluzione finale – fatti per nascondere (tramite un processo di eufemizzazione) la realtà, quel tanto che bastava per estraniarsene, per cancellare mentalmente e verbalmente l’orrore, nascondendolo sotto l’accumularsi di questioni di ordinaria amministrazione, fino a coinvolgere le vittime stesse nel meccanismo di distruzione. Sotto il linguaggio burocratico e occultante emergono pensieri e discorsi, argomenti e riflessioni vuote, banali, frasi fatte, che isolano dalla realtà, permettendo di compiere un male per il quale all’epoca del processo di Gerusalemme non si trovarono le parole: il crimine burocratico, che ha come armi la penna e il formulario, non avendo apparentemente nulla di diverso da un lavoro normale, e che richiede solo sottomissione all’autorità.

La portata del crimine burocratico è comprensibile solo analizzando gli apparati decisionali, le strutture di dominio, (cosa che Raul Hilberg ha mostrato egregiamente nel suo La distruzione degli ebrei d’Europa), ma resistervi richiede qualcosa di più: innanzitutto, l’analisi delle argomentazioni fallaci; in secondo luogo, la capacità di un linguaggio non burocratico ma meta-forico in senso letterale, che sappia cioè portare oltre le sacche dell’impossibilità concretizzatasi nei campi di concentramento e di sterminio, nella morte per decreto, oltre il conformismo di massa degli individui estraniati e isolati che sono al servizio dell’ideologia totalitaria, questa capacità è la capacità di giudicare (luogo incompiuto dell’estremo tentativo di Hannah Arendt), la capacità di argomentare, la capacità, immaginifica, di rendere possibile, potenziando il reale, un nuovo inizio, intrecciato di altri. È così che l’esercizio (concertato) del potere supera il problema del dominio (totale). Questo è il senso del motto: pensare politicamente.

 

 

 

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