Filosofia
Gli intellettuali da talk show e il declino della filosofia al tempo del virus
Vi sono in tv, da qualche tempo a questa parte, filosofi che certi del loro habitus accademico – di un sapere che dovrebbe essere per sfumato, antidogmatico, ermeneutico – pretendono di discettare su qualunque argomento, non rammentando l’ammonizione di Gabriel Marcel: «Il primo dovere del filosofo consiste nel pronunciarsi chiaramente sui limiti delle proprie conoscenze e riconoscere che vi sono dei campi in cui la sua incompetenza è assoluta» Si potrebbe parlare di narcisismo, di non accettazione del tempo che passa, e che è passato da quando studiavano ed avevano ancora curiosità e rispetto verso le scienze cosiddette dure nonché una certa dose di fama e rispetto dal modo culturale (ma questo vale solo per i prof. anziani, poi esistono anche giovani rampanti*). Si potrebbe parlare di paura, come tutti, dell’ago, e della paura della paura (compresa quella di dichiararlo). O forse è solo pigrizia, e desiderio di calcare la ribalta della notorietà, reiterando la postura di mobilitazione contestatrice di altri tempi, come quei vecchi attori che ormai avendo superato la fase della notorietà, non potendone ripetere gli antichi fasti, si rinserrano un livoroso atteggiamento di contestazione vagamente complottista della realtà fattuale. Fatto sta che i filosofi stanno facendo una ben magra figura, oscillanti tra la pantomima di un pensiero critico anni 70, e la rivendicazione di uno status intellettuale che ormai ha ceduto da tempo al lustro ben più pragmaticamente utile del sapere scientifico (che loro chiamerebbero calcolante) dei virologi e non accetta di tacere di fronte ai propri limiti di competenza scientifica.
Sarà quel che sarà non posso dilungarmi nel discettare sulle varie ragioni di questo fenomeno di perdita di autorevolezza della filosofia nel discorso pubblico. Certo a quanti ancora credono nella funzione critica del pensiero filosofico fa un po’ male constatare che la causa ne sia una fin troppo facile cedevolezza ad una serie di opinioni che nulla hanno di critico se non quello che Hegel chiamerebbe la potenza astratta – e adolescenziale – della negazione. Come se la libertà fosse quella dell’intelletto, e non quella della dialettica della relazione reciproca in un contesto di eticità, ovvero nell’istituzione comunitaria.
Da giorni ho in mente una frase di Adorno, che dice pressappoco: «Anche l’uomo più miserabile è in grado di scoprire le debolezze del più degno, anche il più stupido è in grado di scoprire gli errori del più saggio» Chi sia lo stupido e chi il saggio non lo so, sarebbe troppo facile dividerli con un taglio netto. Ma come ogni buon aforisma, quello che ho appena citato – se ben ruminato – dà a pensare.
Come dà a pensare l’invito marceliano all’umiltà e al riconoscimento del senso del proprio limite e al non cedere alla tentazione di quello che Massimo Recalcati ha chiamato «il muro», in questo caso muro non tra una communitas immunitaria e un’ alterità percepita come assediante, ma tra le nostre paure e la fiducia nella scienza degli immunologi competenti. Sfiducia spacciata per la rivendicazione di una libertà astratta, anarchica, capricciosa. Quella che Dostoevsky riassumeva nei Ricordi dal sottosuolo con la frase: «Che vada a quel paese il mondo, purché io possa bere il mio tè!»
- Gli uni e gli altri non vengono citati in questo articolo, perché non è una questione di nomi, ma di un trend e di un modo di concepire il rapporto tra sapere specialistico e suoi limiti.
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