Filosofia

Gli effetti collaterali della vita

23 Aprile 2021

Caro Cigno Nero,

più di un anno fa, a diffondere una paura giustificabile è stato il Coronavirus, un “nemico” sconosciuto. Quasi ad esorcizzare questa paura ingestibile si diceva: “Andrà tutto bene!”. È passato del tempo e le cose non sembrano cambiate. Vacciniamoci, perché solo così ci salveremo. Per salvarci dobbiamo raggiungere quella che viene chiamata “immunità di gregge” (che brutta espressione!). C’è chi ci crede, ma ci sono anche quelli che non ci credono: non credono né al vaccino, né alla pandemia. Possiamo dire che la confusione regna sovrana. D’altronde i promessi vaccini stentano ad arrivare e anche quando ne abbiamo, seppur pochi, non riusciamo ad utilizzarli correttamente. A questo aggiungiamo il cosiddetto caso Astrazeneca. Questo vaccino è efficace? Forse non come gli altri; forse ha effetti collaterali devastanti. Ormai nulla più sembra poterci rassicurare. A questo aggiungiamo mezzi di informazione che sembra facciano a gara nel generare panico. Non ci rimane altro che la speranza. La speranza che tutto vada bene. La speranza sembra essere l’unico ed ultimo rifugio. Ma a generare paura mi sembra che sia più la confusione diffusa sui cosiddetti mezzi di “socializzazione” che la “presenza” effettiva e reale del “nemico”. Come faccio a dire: “Io non ho paura”?

Domenico P.

 

 

Caro Domenico,

la domanda che chiude la tua mail è una domanda su cui vale la pena soffermarsi. Nello scenario che descrivi, la paura è, sostanzialmente, paura di morire.

Ma facciamo un passo indietro, precisamente nel sedicesimo secolo, epoca in cui è vissuto il filosofo Montaigne, che nei Saggi scrive: “Non muori perché sei malato, muori perché sei vivo.” Con queste parole, apparentemente contraddittorie, Montaigne sembrerebbe riferirsi più che al suo tempo – in cui la medicina era rozza e approssimativa e una “banale influenza” poteva essere causa di morte – al nostro, che è un tempo in cui per una “banale influenza”, reale o presunta, grazie al progresso della ricerca in campo medico e scientifico, esiste una cura. Allora sì, potremmo dire che non sempre, per fortuna, si muore perché ci si ammala. E se oggi non sempre si muore, nemmeno con una pandemia in corso, lo dobbiamo ai vaccini, e alla relativa rapidità con cui ne possiamo disporre. Purtroppo questo vantaggio deve fare i conti con un altro tipo di progresso, che si è rivelato meno vantaggioso nella gestione di un virus potenzialmente mortale: il nostro essere iperconnessi sia fisicamente che virtualmente. Nel primo caso, la facilità e la velocità con cui possiamo muoverci nel mondo ha favorito la diffusione del contagio. Nel secondo, a infettarsi è stato il pensiero, perché la dimensione virtuale ci ha resi bulimicamente avidi di notizie, facendoci propendere per la quantità a scapito della qualità, e ci ha perciò sottratto quel tempo necessario affinchè un pensiero possa prendere forma tra le informazioni.

Ma se il “contagio fisico” si può contenere, almeno in parte, con le restrizioni previste in caso di emergenza sanitaria, quello del pensiero resta più difficile da arginare. Ossessionati dal dover sapere e capire tutto e subito – complice quel desiderio atavico che abbiamo di controllare la realtà e piegarla al nostro volere – dopo aver messo sotto la lente di ingrandimento il virus, la pandemia e la sua gestione da parte del governo, ora tocca ai vaccini. E mentre rincorriamo l’ennesimo aggiornamento in tempo reale – che non è mai l’ultimo perché ce ne sarà sempre uno nuovo, pronto a contraddire quanto affermato in precedenza o da un’altra fonte – confrontando e analizzando dati, percentuali e statistiche, per sapere se il vaccino ci salverà o ci ucciderà (sempre con un occhio a quello che fanno gli altri paesi), ci perdiamo quella visione d’insieme che ogni lente di ingrandimento preclude. Per esempio, non consideriamo che tutti i farmaci hanno effetti collaterali, e da sempre li assumiamo pur essendone consapevoli. Solo che nel caso dei vaccini si tratta di assumere un farmaco da “sani”, i cui effetti non riguardano solo il singolo, ma la collettività. E perciò la decisione di assumerlo presuppone che si ragioni a livello collettivo e non individuale. Esiste poi una cosa chiamata farmacovigilanza, che consiste nel controllo e monitoraggio permanente di un farmaco usato su larga scala al fine di individuarne eventuali rischi o effetti nocivi, che è ovviamente di per sé un bene, ma che si è trasformata in una condanna nel momento in cui è diventata l’equivalente di un pettegolezzo di dominio pubblico. Perché se essere informati è un diritto, saper informare e sapersi informare dovrebbe essere un dovere, un dovere etico prima di tutto.

La velocità da cui siamo travolti non va d’accordo con i tempi della scienza. La stessa farmacovigilanza ha bisogno di un tempo ragionevole, che non coincide con quello virtuale della circolazione di notizie in cui tutto è diventato scoop. Ecco perché le informazioni di cui disponiamo non possono che essere parziali, se non addirittura errate o contraddittorie: il caso Astrazeneca, cui si è aggiunto, proprio mentre siamo qui a parlarne, anche Johnson&Johnson, ne è un esempio.

Quello di cui non ci accorgiamo, travolti da questo vortice di aggiornamenti minuto per minuto che invece di sedare i nostri sospetti ci ha resi ancora più sospettosi, è che la paura che abbiamo degli effetti collaterali di un vaccino è frutto dello stesso pregiudizio che abbiamo nei confronti dell’errore: la farmacovigilanza è un po’ quello che il cigno nero è per Popper, il filosofo del falsificazionismo secondo cui l’errore in campo scientifico è fondamentale per scoprire, comprendere e rendere di conseguenza più valide le teorie. Solo che noi continuiamo a guardare con la lente di ingrandimento, e quel cigno nero lo vediamo come una macchia che stona in mezzo a tanti cigni bianchi. Se invece mettessimo via quella lente di ingrandimento, ci renderemmo conto del paradosso in cui ci troviamo, e cioè che vogliamo uscire da una pandemia per tornare a fare una vita che ci espone agli stessi rischi, se non maggiori, di quelli a cui ci espone un vaccino che dalla pandemia però può tirarci fuori. Sono i rischi che abbiamo sempre corso salendo su un aereo, attraversando la strada o prendendo un contraccettivo.

Ma torniamo alle parole di Montaigne. Quelle parole in realtà sono un invito a cambiare prospettiva, sulla vita e quindi sulla morte. Vogliono dirci che è il corso stesso della vita a portare alla morte, perché, se è vero che non esiste un confine netto tra salute e malattia, visto che ci si può ammalare a qualsiasi età e in qualsiasi momento della vita, niente che riguarda noi e il mondo in cui viviamo è certo. Niente è certo con o senza malattia, perché “la morte si mescola e si confonde dappertutto con la nostra vita”. Allora quella paura di morire, che prima veniva da un virus, con l’arrivo dei vaccini si è trasformata in paura di vivere, o forse anche di tornare a vivere, dal momento che vivere significa rischiare. Si tratta di una paura più ampia nel suo essere meno circoscritta: paura di non essere all’altezza delle aspettative degli altri, di soffrire, di essere delusi, di invecchiare, di perdersi e di perdere qualsiasi cosa. Ad ammalarsi così è la vita, e noi con lei. Ma esiste un vaccino che ci renda immuni a questo tipo di paura, consentendoci di vivere al meglio quel pezzo di vita che ci separa dalla morte?

Ciò che è sempre stato a cuore a Montaigne era fare in modo che nell’ intreccio tra vita e morte quest’ultima non fosse una preoccupazione capace di inficiare la qualità della vita. Forse quello che ci suggerirebbe oggi è di montare a cavallo, come amava fare lui, perché era lì che il suo senso di inquietudine si attenuava, lì prendevano forma i suoi pensieri, lì trovava il suo equilibrio. Andare a cavallo richiede insieme stabilità e movimento: non sono le nostre gambe a muoversi, ma nonostante questo non possiamo restare passivi, dovendo di continuo cercare l’assetto per non cadere. Quella dell’equitazione può anche restare una metafora, ma ci dice che vivere sapendo di dover morire è una questione di equilibrio. Si tratta di un equilibrio sempre precario, come quello in un mondo in continuo movimento e in cui continuamente ci muoviamo. Cercare l’assetto significa abbandonare l’illusione di poter controllare ogni aspetto della vita, lasciare che a volte ci conduca, ma non che ci trascini. Significa cogliere le opportunità accettando anche l’imprevisto. Fidarsi, ma senza delegare all’altro la responsabilità del “noi”.

La speranza, che sembrerebbe “l’unico e ultimo rifugio”, ci rende passivi. L’assetto ci chiede un’azione, ci vuole partecipi.
La questione dei vaccini si poteva gestire meglio? Certo. Ma la scienza, abbiamo detto, ha bisogno dei suoi tempi. Tempi che però avrebbero comportato altri rischi per noi. Anche qui si tratta di equilibrio, di trovare l’assetto tra l’urgenza di uscire da una pandemia e la sicurezza di un mezzo per uscirne. Anche qui abbiamo a che fare con quel “nulla è certo”. Nell’attesa possiamo per paura negare l’esistenza di un virus o continuare ad averne paura. Oppure possiamo fare come Montaigne: desiderare che la morte ci colga di sorpresa mentre siamo nel nostro orto intenti a piantare cavoli, perché nel frattempo eravamo completamente assorbiti dal prenderci cura della vita.

 

 

 

Nella singolare “cura” prescritta da Montaigne, la guarigione dipende totalmente da noi, e non si tratta di una guarigione che ci mette al riparo dalla morte. Allora forse per guarire dalla paura di morire, non dobbiamo guarire da quella di vivere?

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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