Filosofia
Getsemani: la paura di Gesù ed il silenzio di Dio
Gesù cadde a terra, si prostrò con il viso sul suolo e piegò le ginocchia, così raccontano i Vangeli. La preghiera di adorazione è rivolta al Padre e si compie con un atto di estrema sottomissione – faccia a terra – che rappresenta il più radicale abbandono a Dio.
Si dovevano compiere le Scritture: come il Giusto sofferente nei Salmi rabbrividiva ed aveva paura, allo stesso modo Gesù provava angoscia. “L’anima mia– disse- è estremamente triste fino alla morte”(Matteo, 26, 38).
Il Getsemani, l’innocente torchio per l’olio, diventò così il luogo delle tenebre, dove si scatenano i terrori, le tentazioni, i sonni colpevoli, l’abbandono, il tradimento, la spada, rischiando di travolgere lo Spirito del Figlio di Dio. Non ignorava nemmeno un’ombra del suo futuro: sapeva che sarebbe stato processato, flagellato, condannato sulla Croce.
Pur essendo Figlio di Dio, Gesù soffoca nella paura. Emerge la sua natura umana ed avverte l’angoscia primordiale della creatura di fronte alla vicinanza della morte: egli è Colui che è la vita stessa, ma ha davanti l’abisso, il potere della distruzione del male, di ciò che si oppone a Dio. Vive il dramma di sopportare il peccato commesso brutalmente dai suoi carnefici, dal potere della menzogna e della superbia.
Gesù era solo e cercò l’aiuto dei discepoli, affinché vegliassero con lui. Ma cedettero al sonno, anche i suoi prediletti Pietro, Giovanni e Giacomo.
I vangeli ci ricordano che grondava sudore mischiato a sangue e l’uomo che era in lui invocò, tremante, l’aiuto del Padre. “Padre allontana da me questo calice”.
Dio non vede e non sente suo Figlio, non esaudisce la sua preghiera: ed è l’unica volta; nessuna parola scese dall’alto, il cielo era muto e si aprì l’abisso tra il Padre ed il suo Figlio: i grumi di sudore cadevano al suolo come sangue.
L’umano ed il divino si lacerano e si separano in Gesù: i due piani si sconnettono in un lago di sofferenza umana, dove tutto si confonde ed il divino sfugge, si nasconde. Ha paura di morire, di perdere la vita e l’invocazione al Padre rimane senza ascolto. Trasuda gelo.
“Ma sia fatta la tua volontà”, dice piangendo rivolgendosi al Padre.
Non sopportava la Passione che Dio aveva deciso per lui; egli pensava che esisteva un’altra strada che cancellasse la colpa di Adamo, senza passare tuttavia per il calice della sua crocifissione. Ne accettò la sofferenza: il seme del grano doveva morire, la croce bagnarsi di sangue e si dovevano compiere le Scritture, per la volontà di Dio nella ferrea necessità del sotteso messaggio dei profeti.
E così fu: prese i peccati di tutti e l’innocenza morì sulla Croce.
Il Getsemani è l’ora dell’agonia, dell’inermità, dell’abbandono assoluto, è l’ora dell’angoscia senza nome, perché Gesù si deve distaccare dal mondo. Di qui, come accade per ogni uomo quando una prova appare troppo grande, la prima invocazione umanissima che egli rivolge ai suoi: «restate qui e vegliate con me» (Mt 26,38). Ha bisogno di non sentirsi solo nella notte, chiede di tenere vicini a sé i più cari: Giovanni, Giacomo e Pietro. Sente che non ha le forze sufficienti per sopportare da solo il peso della morte che arriva. Domanda, invoca, richiede la presenza dei suoi compagni, chiede ai suoi di condividere la veglia, di non essere lasciato solo. Non è qui Dio che supplica, ma l’uomo. Non è forse umanissima questa domanda? Non è la stessa domanda che i bambini inquieti possono rivolgere ai loro genitori di fronte all’angoscia del buio? «Resta qui, accompagna il mio sonno, non andartene!»
Colpisce questa inermità che si esibisce nella forma più semplice e più drammatica nel figlio di Dio. Gesù non chiede ai discepoli di salvarlo dal suo destino, di trovare una via di fuga, non chiede loro di immolarsi in sua difesa. Basterebbe che non lo lasciassero solo a sopportare il peso di quella notte, basterebbe che vegliassero il suo sonno tormentato. La sua richiesta è minima, ma viene egualmente evasa.
Alzatosi dopo essersi immerso nel suo dolore, Gesù si accorge che i discepoli lo hanno lasciato solo e si sono placidamente addormentati. Non hanno saputo resistere al sonno proprio nel momento in cui il loro maestro chiede di restare con lui, di non abbandonarlo. La sua constatazione è amara: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?» (Mt 26,40).
Dio non risponde se non col silenzio.
È il silenzio di Dio, assordante come può esserlo stato di fronte all’atrocità della Shoah o come è davanti alla morte di bambini innocenti stroncati da malattie incurabili. Sempre, in questi casi e in tutte le volte dove la vita è sottoposta al dolore privo di senso, il silenzio di Dio appare come insopportabile e inumano.
Gesù prega il Padre chiedendogli di interrompere la Legge, di fare posto a un’eccezione, di considerarlo davvero come figlio unico. Ancora di più: gli chiede di contraddire il suo destino, di modificare la storia già scritta, di salvare la sua vita singolare dalla morte. Il Dio biblico è infatti il Dio che può sospendere la Legge, come accade, per esempio, nella scena del sacrificio di Isacco: è un Dio che parla e, soprattutto, è un Dio che risponde. Il Dio biblico non assomiglia affatto agli dèi o agli oracoli del mondo greco che leggono il carattere immutabile del destino, ma è un Dio disposto a correggere se stesso, a piegare la durezza della Legge alla Legge dell’amore.
Si compie nel Getsemani, come ha scritto Recalcati (La Notte del Getsemani, Einaudi editore),l’esperienza più profonda della preghiera. Il colmo della preghiera non è il recupero di forza da parte dell’Io per sostenere una prova difficile, ma un atto di disarmo, di consegna, di offerta senza condizioni al di là dell’Io.
“Non sia fatta la mia, ma la tua volontà”, conclude il suo travaglio Gesù. Sicché l’Io cede, indietreggia, si affida all’Altro, sebbene l’Altro – ed è questa la prova ultima – non risponda. Non c’è, infatti, alcuna presenza di Dio nel Getsemani, se non nella forma della sua assenza più radicale.
Ed il Cristo che diventa Uomo, che suda sangue, che viene tradito dalla fragilità dei suoi discepoli, che prende sulle sue spalle le colpe degli uomini, che piange nel silenzio della notte: sono i momenti più significativi ed aulici della rappresentatività della donazione, nel darsi all’Altro, come compiutezza del vivere nell’amore.
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