Filosofia
Francobolli e messaggi virtuali: la scrittura al tempo delle spunte blu
Caro Cigno nero,
in questi giorni di interdetta vita sociale, mettendo ordine nei cassetti della scrivania mi sono imbattuta in pacchetti di buste e fogli per corrispondenza. Mi è tornato così il ricordo della trepida attesa della lettera dei genitori, inserita nel “pacco famiglia” spedito alla figlia studentessa universitaria, delle lettere di amiche e amici, o di quelle, particolarmente significative, del periodo dell’innamoramento. Oggi che la “corrispondenza scritta” in tempo reale è affidata quasi esclusivamente a pc e Smartphone, con tutti i rischi di violazione della privacy, sembrano sparite l’emozione dell’attesa e della successiva attenta lettura, la tensione e l’impegno nella risposta, frutto di profonda concentrazione, riflessione e partecipazione affettiva. La perdita di questa sana abitudine comunicativa non potrebbe essere alla base della scarsa disponibilità espressiva che oggi sperimentiamo a causa di un linguaggio sempre più compresso e povero, frutto della “folle velocità” che, finora almeno, tendeva a travolgere tutto?
Vittoria
Cara Vittoria,
le parole che leggi in risposta alla tua mail, prima di comparire qui sono state scritte a mano, con carta e penna, forse per via di quel bisogno – che resiste in alcuni di noi che hanno vissuto un tempo senza smartphone e pc – di toccarle, sentirle un po’ più nostre, più concrete in un gesto che ce le fa a volte marcare di più, altre vederle quasi sciogliersi per esserci distrattamente passati sopra con la mano.
La penna e le lettere sono due dei dieci “splendidi oggetti morti” che, per Massimo Mantellini, hanno fatto parte della nostra vita fino al momento in cui sono stati sostituiti da strumenti più immediati, veloci, che ci permettono di comunicare in tempo reale bypassando, quasi sempre, quelle trepide attese: gli schermi touch dei nostri smartphone, le tastiere dei computer, le chat e i messaggi vocali hanno annullato ogni distanza geografica, facendo diventare sincrone le nostre parole che un tempo erano affidate all’indeterminatezza, al non sapere quando o se sarebbero mai arrivate al destinatario.
Tutto sommato, che questi oggetti siano morti sembrerebbe quindi un bene, soprattutto in tempo di pandemia, dove accorciare le distanze, almeno virtualmente, rende più sopportabili nostalgie e rinunce. In alcuni casi lo schermo di uno smartphone è stato l’unico modo per dire addio ad un volto familiare. Come sempre accade col progresso, però, indietro non lasciamo solo cose, ma anche abitudini che hanno dato forma a ciò che siamo. Chi ha vissuto l’eccitazione e l’impazienza dell’attesa, dell’asincronicità di uno scambio di pensieri, chi ha cercato il tempo e lo spazio per scrivere una lettera affidata poi ad uno sconosciuto che ha portato in giro questa intimità raccolta in un pezzo di carta fino al suo destinatario, sa che con quegli oggetti è morta anche una parte di lui o lei. E sa che queste nuove parole, digitate velocemente, e altrettanto velocemente arrivate all’altro capo della città, del continente, del mondo, si sono in qualche modo indebolite.
Lo scambio epistolare che Gramsci ha intrattenuto con i suoi figli dalla cella del carcere di Turi, in Puglia, ci dà invece un’idea di quanta forza possono avere le parole che fermiamo sulla carta, anche quando, soprattutto quando, come nella sua condizione, il nostro corpo è imprigionato e di libero e attivo non ci resta che il pensiero. Le sue lettere sono state il tramite per farsi presente dove non poteva essere, in un tempo reale immaginato e desiderato nella ricerca di una corrispondenza effettiva e concreta. Da quella cella tre metri per quattro e mezzo, con una finestra da cui “si può vedere solamente una fetta di cielo”, Gramsci scrive ai figli Delio e Giuliano esortandoli a fare lo stesso, a scrivere senza fretta, un po’ alla volta, prendendosi il giusto tempo per raccontargli tutto: della scuola, delle “cose bellissime” viste al mare, dei giorni di vacanza. Scritte a volte con “un pennino che gratta la carta” e lo obbliga “a un vero acrobatismo digitale”, le sue lettere ce l’hanno un tempo reale, ma diverso da quello della nostra “folle velocità”. E sta tutto nei suoi ricordi di ragazzo che si intrecciano alle esperienze dei suoi figli, in quei “cinque minuti del babbo” che prova a dar loro ogni giorno immaginando di essere lì al mattino, nel suo dire a Giuliano: “scrivi come se volessi farmi ridere, per divertirti anche tu”.
Quello delle lettere sembra un tempo destinato a non tornare più. Eppure durante lo scorso lockdown il comune di Cento ha dato vita al progetto “amici di penna”: un gruppo di ragazzi ventenni ha iniziato a scambiarsi lettere con gli anziani della zona allo scopo di alleviare il loro senso di solitudine, amplificato dalla pandemia. Una iniziativa decisamente anacronistica se pensiamo che è nata durante una emergenza sanitaria nell’epoca dei messaggi istantanei, digitati rapidamente e in parallelo a molte altre attività, e che ha fatto incontrare generazioni che hanno un diverso rapporto con la scrittura e i suoi strumenti. Ma proprio questa combinazione tra la possibilità di una comunicazione tanto rapida da diventare simultanea e i ritmi rallentati cui costringe una pandemia, ci dice che un senso carta e penna devono pur averlo, che forse non sono oggetti morti del tutto, se da qualche parte qualcuno è riuscito a riportarli in vita. Chissà se tra quegli amici di penna c’è chi ha incontrato il pensiero di Derrida, e ha convenuto con lui che quello che scriviamo in una lettera resta presente anche senza di noi, perché lascia una traccia, a differenza della voce a cui affidiamo ogni cosa nell’era dei messaggi vocali; e che quella traccia è la prova che il pensiero ha un corpo.
Ci siamo così abituati a sintetizzare in messaggi virtuali i nostri pensieri, che abbiamo finito col comprimere, impoverendolo, anche quel sentire che li ha generati, ritrovandoci con un linguaggio che non lascia traccia né in chi lo invia né in chi lo riceve. Invece le cancellature, l’inclinazione della scrittura, la grafia, la pressione della penna sulla carta, dicono tanto di noi. Cose che nessun supporto digitale, per quanto sofisticato, può cogliere e restituire al destinatario.
Succede allora che, proprio avendo più tempo a disposizione – per quanto si tratti di un tempo reale imperfetto – alla scrittura riserviamo attimi distratti, (con)divisi con mille altre faccende. E forse è proprio lì, in quella distrazione, che perdiamo la possibilità di raccontarci autenticamente.
Le lettere invecchiavano con noi, ci sopravvivevano e forse ci sopravvivranno: la carta ingialliva, le pieghe di quei fogli che abbiamo richiuso con gesti rituali per conservarli in un cassetto, tra le pagine di un libro o dentro una scatola, erano le rughe delle parole, come quelle d’espressione di un viso che, leggendole, ha pianto, riso, corrugato la fronte per capire.
Se abbiamo smesso di scriverle, più che alla diffusione di una comunicazione ipertecnologica, lo dobbiamo all’aver creduto che ogni tipo di comunicazione potesse essere affidata alla velocità, che nessun tipo di comunicazione richiedesse un tempo diverso da quello cui ci siamo abituati. Perché, se gli strumenti di cui disponiamo oggi hanno annullato i confini geografici che ci separano (il che, in molti casi, resta un vantaggio), le lettere quei confini avevano la capacità di ridisegnarli, rendendoli familiari seppure nella distanza, proprio come è successo tra quegli amici di penna, separati e riuniti da quella pianura tra Bologna e Ferrara.
Le lettere che abbiamo scritto col corpo, i confini hanno saputo trasformarli in pelle, per toccare e farci toccare attraverso le parole. Sarebbe bello se, invece di dimenticarle del tutto, riuscissimo a ritagliarci un po’ di tempo per farle invecchiare insieme a noi.
La comunicazione virtuale ci dà l’idea di poter controllare e gestire la nostra vita e le nostre relazioni. Ci toglie però la libertà del tempo per pensare, chiarirci le idee e, eventualmente, decidere anche di renderci “assenti” o rimandare lo scambio. Non tutto quello che abbiamo da dire, infatti, si presta all’immediatezza: l’esserci disabituati al tempo lento dei pensieri che affidavamo a carta e penna, ha cancellato questa capacità, a suo modo unica, di espressione o è possibile immaginarne una nuova che lasci traccia delle nostre parole e quindi di noi?
Maria Luisa Petruccelli
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