Filosofia
Essere, o non essere, è questo il dilemma
“Parto oggi me ne andrò per la mia strada…….
ma se è quello che vuoi
posso fare esattamente come te
e fare finta che non ci siamo mai toccati”
Piacere o piacersi? Meglio sarebbe che le due cose coincidessero. Ma è difficile, quasi impossibile piacere a tutti, si vive spesso per compiacere gli altri, per assecondare le aspettative altrui, perché si vuole essere riconosciuti. È difficile scoprire se stesso in un mondo che ci mette sempre in continua competizione, spesso dover dare il massimo in tutti i campi, sotto ogni aspetto, nascondere le proprie fragilità, non ci consente di scoprire quali sono le nostre reali passioni, le nostre aspirazioni. Indossiamo certi abiti perché son di moda non ci guardiamo allo specchio per verificare se davvero sono adatti alla nostra figura, né se sono comodi, li indossiamo perché uniformarsi ci consente di essere accettati, ben voluti, ci conferiscono quella forma che la società in quel momento detta. Essere difformi significa essere allontanati, respinti, etichettati come strani. E la stranezza fa paura perché implica un impegno diverso, più approfondito affinché si possa essere intesi, parla il linguaggio della complessità, quella che non è riducibile ala forma esterna, ma richiede un’analisi più intensa che consente di decifrare la matassa di desideri, interessi, pulsioni che si agitano sotto la superficie. Dirimere il groviglio che costituisce la nostra personalità richiede tempo, attenzione, cura.
Ci si interroga dinanzi ad episodi di violenza giovanile e sorprende quando non è ascrivibile alla povertà culturale e di mezzi; quando l’aggressività coinvolge ambienti agiati deve sollevare dubbi più profondi. Spesso in quel caso si sta cercando una forma estrema per chiedere di venire fuori, di essere accettati, amati per ciò che si è, non per ciò che si rappresenta. La rappresentazione è l’ombra che cammina con noi che a seconda dell’altezza del sole ci ingrandisce, o ci fa sembrare più bassi, è il sole alto nel cielo che ci ferisce gli occhi e non consente una visione limpida, chiara. Spesso i giovani chiedono di essere presentati a se stessi, non di essere rappresentati. Il rappresentante è un portavoce, loro vogliono poter usare la propria voce, sentire che contano, non perché sono i primi della classe, ma perché sono e in quanto essere, inteso in senso parmenideo, non possono non essere, non possono essere qualcuno diverso da sé. Ciò di cui i ragazzi hanno bisogno è che quel qualcuno non sia uno qualsiasi, ma l’uno diverso dagli altri, accettato, riconosciuto nelle sue peculiarità, nel suo bisogno di esprimersi, un io che prende forma nel suo tempo ma che ha la possibilità di superare quel tempo, divergere senza per questo essere etichettato.
Come ogni nuovo sconvolgimento sociale, l’abolizione del servizio di leva fu abbastanza osteggiato perché preparare dei potenziali soldati, educarli all’ordine e alla disciplina, era un modo più semplice di controllare il pensiero e l’impulso di giovani generazioni, molte delle quali non condividevano gli ideali di uno Stato che li stava formando. Il servizio civile ha rappresentato la risposta a più sentite esigenze umanitarie, una difformità rispetto ai binari su cui si voleva incanalare l’ideologia di chiunque, anche di chi la percepiva ostica.
Non si può capire l’altro se non si scavalca lo steccato dell’apparenza, bisogna abbattere la barriera della superficialità, denudare una persona dell’orpello, solo approfondendo e non lasciandosi spaventare dal fronzolo ci si può avvicinare all’altro. Più che un pensiero speculativo, occorre abbandonarsi e immergersi nella ricerca dell’altro.
Per dire quanto Flush, il cane di Elizabeth Barrett Browning fosse eccezionale, Virginia Woolf usa un paragone curioso: «Conosceva Firenze meglio di George Eliot». Flush, che mancava della parola, si orientava a Firenze «con la lingua, il naso, gli infinitamente sensibili polpastrelli delle dita dei piedi». Come Flush, bisogna annusare l’altro correndo il rischio di spogliarsi della propria corazza e indossare la propria fragilità.
Non è facile non lasciarsi ammaliare dalle mode. Anni fa a dettare la moda è stata la televisione: le Miss Italia di un tempo erano prosperose, Sofia Loren, Silvana Mangano oggi sarebbero over size, poi la donna tipo mannequin ha ribaltato la tendenza. In tempi più recenti, a rivoluzionare la nostra identità è stata l’era dei social network. Facebook, ad esempio, nato come strumento di contatto e comunicazione, è diventato una vetrina dove milioni di persone condividono frammenti di vita, pensieri, opinioni. Il frammento però è una parte, una porzione serve a rappresentare, appunto, non a presentare. Quante persone che hanno incontrato gente conosciuta in chat si sono ritrovate a conoscere una persona totalmente diversa dall’immagine proposta sul social. Esso costituisce la nostra maschera, il cappotto buono, quello di rappresentanza, è la nostra versione pubblica.
Al di là del copione scritto, di cui siamo autori e che ci serve a mettere in scena il nostro io sociale, la bolla entro cui ci muoviamo, e che è parte del nostro io, dobbiamo ritagliarci lo spazio dell’autenticità, quello delle emozioni, delle imperfezioni. Diversamente si corre il rischio di dimenticare la nostra spontaneità e indossare a vita la “faccialibro” che qualcun altro ha disegnato per noi.
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