Filosofia

Quando Einstein chiese a Freud: perché la guerra?

11 Maggio 2015

Illustrazione di Federico Monzani

Era il 1932 e la Società delle Nazioni propose ad Albert Einstein di invitare una persona di suo gradimento ad uno scambio di opinioni su di un tema da lui scelto. Einstein scelse la guerra, argomento urgente allora come oggi anche se differente era la conformazione storica e politica del mondo nonché le categorie di classificazione della guerra.

“Caro Signor Freud […]” scriveva Einstein “la domanda è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”

Il discorso si orienta poi su tre punti chiave che l’inventore della teoria della relatività individua e sottopone a Freud:

– la necessità di un organismo sovranazionale, quale l’allora Società delle Nazioni, con il mandato di comporre tutti i conflitti che sorgono tra gli Stati che manca però del potere necessario a far rispettare le proprie decisioni. La riluttanza da parte degli Stati a cedere sovranità in favore di qualche cosa che li trascende.

– “Come è possibile che la minoranza  ora menzionata”, Einstein si riferisce alla classe dominante, “riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere?” E tra l’altro sino ad arrivare all’olocausto di sé?

– Einstein deriva dal punto precedente il fatto che “l’uomo ha entro di sé il piacere di odiare e di distruggere” e chiede a Freud: “Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?”

Al di là del primo punto, entrambi concordano che il continuo fallimento dell’Autorità Centrale costituita (la Società delle Nazioni) sia dipeso dalla mancanza di forza propria necessaria a far rispettare le decisioni e dalla non volontà degli Stati a cedere sovranità; ciò che a mio avviso risulta interessante per estendere la riflessione all’oggi sono le argomentazioni di Freud in risposta agli altri due punti.

Ci sono due cose, per la teoria psicoanalitica, che creano coesione fra i gruppi umani: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri (in termini tecnici identificazione). L’identificazione è un concetto fondamentale in psicoanalisi, diciamo che si tratta di un legame emotivo che lega i seguaci ad un capo. Questo capo, può essere il Presidente del Consiglio, cioè una persona, ma anche un’idea, il marxismo per esempio o l’anarchia. Freud in Introduzione alla psicoanalisi definisce il concetto di identificazione come “assimilazione di un io a un io estraneo, in conseguenza della quale il primo io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé”.

È tramite l’identificazione e la coercizione violenta (le leggi e la polizia che le fa rispettare), per rispondere al punto due, che la classe dominante riesce “ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo che da una guerra ha solo da soffrire”. Oggi, essendo diminuita la quantità di risorse economiche investite nella formazione di milizie statali, c’è un nuovo elemento da aggiungere, ed è la crescita nell’utilizzo degli eserciti privati da parte degli Stati. Ma questo forse è un altro discorso.

La teoria psicanalitica sostiene la presenza di due pulsioni intrinseche all’umano: pulsioni che tendono all’autoconservazione dell’individuo – chiamate anche pulsioni erotiche sia nel senso dell’Eros platonico sia in quello di sessuali nel senso comune del termine – e pulsioni che tendono alla distruzione, che Freud arrivò a chiamare anche pulsione di morte. “È assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione”. Secondo Freud la pulsione di morte è all’opera in ogni essere vivente “e la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato di materia”. Tale pulsione diventa distruttiva quando si rivolge verso l’esterno, verso gli oggetti; l’essere vivente protegge la propria vita distruggendone un’altra.

La psicoanalisi sostiene addirittura che il rivolgersi dell’aggressività verso l’interno, in una certa misura, crea la coscienza morale. Se tale processo è spinto troppo oltre però può dare vita a patologie invalidanti; “invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico […] si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quel che lo sia la resistenza con cui noi li contrastiamo […]”

Continuando il discorso Freud sottolinea come sia impossibile sopprimere le tendenze aggressive degli uomini, certo invece di abolirle completamente si potrebbe tentare di deviarle, impedendo che sfocino nell’espressione della guerra.

Qui arriva la parte più interessante del discorso freudiano perché permette, a mio parere, una riflessione su concetti dibattuti oggi più che mai, quali quello di occidentalizzazione ed esportazione della democrazia.

“Perché ci indigniamo contro la guerra, Lei io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile […] La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i vari individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora […]
Ho in mente qualcosa d’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo non farlo. Siamo pacifisti perché lo dobbiamo essere per ragioni organiche […]”

Che cosa significa “per ragioni organiche”?

Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo di civilizzazione. “Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e una buona parte di ciò di cui soffriamo”. Partiamo dal presupposto che il vivere civile sia qualche cosa di superiore rispetto all’assecondare i propri istinti più naturali, i quali non permettono costruzione e sviluppo alcuno. La vita civile richiede la repressione o meglio la sublimazione degli impulsi, il che significa deviare l’obiettivo di una pulsione – per esempio sessuale o di distruzione – verso un qualcosa che contribuisce in modo positivo allo sviluppo dell’umanità o della propria persona nel senso di non contraddizione delle norme sociali.
Questi comportamenti acquisiti producono nell’uomo modificazioni fisiche e psichiche.  Sensazioni che per i nostri genitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili.

É questo che intende Freud per “siamo pacifisti perché lo dobbiamo essere per ragioni organiche”.

Ora, dice Freud per concludere, “la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, così che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo dell’idiosincrasia […]”

A quel punto si chiede:

“Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti?”

Era il 1932, di lì a poco Hitler avrebbe preso il potere, Stalin era già Segretario Generale del Partito Comunista Russo e l’Europa e il mondo avrebbe conosciuto uno dei periodi più bui della propria storia.
Poi la fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda hanno di fatto creato un blocco di paesi fra di loro “pacifici”, non in stato di guerra militare.

I cittadini dei paesi più civilizzati, il giapponese oppure l’italiano o l’americano hanno di fatto esorcizzato la guerra dal loro modo di pensare, la considerano una calamità lontana, una possibilità remota, quasi priva di significato reale.
Questo atteggiamento è stato interiorizzato, come dire, “biologizzato” se mi è concesso l’uso di questo termine.

Detto ciò vorrei avanzare una tesi con tutte le cautele del caso e sarei felice se qualcuno mi contraddisse argomentando.

Se è vero che l’uomo democratico dei paesi più sviluppati ha esorcizzato la possibilità della guerra al punto di rifiutarla organicamente,  ha interiorizzato nel corso del processo di civilizzazione una serie di valori quali il rispetto della vita altrui e la libertà dell’individuo. Inoltre, cosa che fa riflettere, non perderebbe ciò che ha costruito per nessun ideale al mondo; Se è vero tutto ciò, in quale rapporto si pone il concetto di esportazione della democrazia, inteso non in senso imperialistico ma imperiale, con quello di liberazione degli uomini dalla fatalità della guerra?

Non voglio fare della democrazia una forma di governo perfetta, basti leggere Carl Smith o Schumpeter per capirne i limiti intrinseci, ma guardarne gli effetti reali di mitigazione ed eliminazione della violenza esplicita nel singolo individuo e rapportarli alla pratica della guerra, del fare la guerra.

Per concludere e rispondere alla domanda: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?

Freud sostiene che “non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra”.

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