Filosofia
É per rinascere che siamo nati
Maria Zambrano, filosofa spagnola, a stretto contatto con gli orrori della seconda guerra mondiale, patendo per tutta la vita l’esilio e la povertà, comprese la fragilità umana come un processo incessante di resistenza e soprattutto di rinascita. Lo stare al mondo, secondo lei, va continuamente riguadagnato e riconfigurato. Non si nasce una sola volta per tutte, ma si rinasce continuamente a contatto con gli eventi della storia che capitano. Così ha scritto: “sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e resuscitare senza uscire da questo mondo”.
E’ un incessante mettersi ed essere messi al mondo quello che si sperimenta.
La condizione dell’uomo è quella di un uomo mai nato del tutto che ha bisogno di portare a termine questo evento, vivendo ulteriori nascite.
Della nascita e della rinascita Zambrano sottolinea soprattutto l’aspetto di esposizione e di fragilità: “siccome si nacque nudi, non si può rinascere senza nudità, senza spogliarsi o venir spogliati del tutto ciò che si ha indosso, senza rimanere senza baldacchino, e perfino senza tetto, senza sentire la vita intera come non la si è potuta sentire allorché si nacque la prima volta; senza protezione, senza appoggio, senza punto di riferimento”.
E’ un pensiero straordinario, molto adatto ai tempi incerti e difficili che stiamo vivendo.
Tempi in cui la nostra fragilità è scossa e assediata quotidianamente da minacce sanitarie, ambientali e sociali.
Tempi in cui sperimentiamo un’incompiutezza del nostro essere che non vogliamo però si risolva semplicemente in una resa alla nostra fragilità.
Dipendenza e relatività sono l’altro volto di apertura, trascendenza, libertà, ricerca di un compimento che preme per uscire dall’utero rappresentato dalle condizioni fisiche, sociali, storiche e culturali immediatamente date e per nulla rassicuranti.
La tentazione più semplice, anziché seguire la vocazione a esistere nascendo, è quella del delirio, cioè passiamo il confine della nostra via specifica verso la felicità e inseguiamo un’immagine di noi stessi che è falsa. Delirare significa sprecare la propria esistenza in questo equivoco. Oppure, presi dalla paura verso quanto potremo incontrare, cerchiamo di tornare indietro, di rifiutare la rinascita, per rifugiarci in uno spazio protetto, ma statico. Come un seme che rifiuta di entrare nella terra e non porta frutto. Siamo invitati a qualcosa di meglio che delirare o rifiutare la rinascita.
“Ciascuno di noi non è una statua, è un viaggio. Con tutti i rischi di questo viaggiare fallibile e sovente disorientato” (Roberto Mancini).
Siamo alle soglie della festa del Natale.
Le parole che abbiamo fin ora speso risuonano nello stesso Vangelo in bocca a Gesù: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3).
E ancor di più risuonano nella forma a cui ha consapevolmente consegnato il suo venire e il suo stare al mondo: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo hanno dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20).
Rifiutando la seduzione della morte e del rifiuto della rinascita che essa porta con sé: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22).
E’ la condizione necessaria allo sviluppo della speranza, sempre secondo Maria Zambrano: “il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza…la speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi in modo solo abbozzato. In questo senso, la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie ad essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compito della nostra vita a un qualcosa che non è ancora, a un’incertezza. Per questo abbiamo tempo, siamo nel tempo: se fossimo formati già del tutto, se fossimo già nati interamente e completamente non avrebbe senso consumarci in esso”.
Per rispondere a un Dio che ci ha creati non semplicemente come degli esseri mortali, ma delle creature divine, amate per sempre. Se siamo chiamati a completare la nostra nascita, non è invano. Non si nasce per vivere, né per morire. Si nasce per entrare in una comunione grande come la vita di Dio.
«Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro» (1Gv 1,2-3).
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