Filosofia
Dove sono i finiti i soloni antimodernisti, nel lockdown?
In questi giorni di lockdown, la tecnologia sta permettendo a migliaia di noi di continuare ad avere una vita pubblica: di lavorare, di avere contatti con le persone a cui teniamo, di intrattenerci, di informarci: insomma, di sentirci meno soli, di continuare a percepire che fuori dalle nostre porte, e dietro le porte chiuse degli altri, c’è tutta un’umanità che va avanti, anche se la vediamo solo quando andiamo al supermercato, e non la avviciniamo per paura di contagi.
Vi immaginate una situazione del genere senza questi strumenti? Come sarebbe stato il lockdown, senza internet, senza gli smartphone, senza Zoom e senza Netflix?
I nonni hanno imparato a usare Skype, mentre moltissimi hanno scoperto il telelavoro (con ritardo tipicamente italiano, per cui i cambiamenti si mettono in moto solo quando non si può più evitarli).
La tecnologia, avversata da alcuni in discorsi reazionari e presentata come il disumanizzante per eccellenza, ora ci sta permettendo proprio di sentirci umani, anche se distanti. Cosa dicono, ora, gli indignati della digitalizzazione, i fautori della dicotomia tra reale e digitale, i reazionari che di fronte allo smartphone decantavano la bellezza della telefonata (e di fronte alla telefonata avrebbero decantato la bellezza della lettera su carta)?
Fermo restando il romanticismo delle lettere, del cinema collettivo, delle attese comunicative, questa esperienza servirà a veder finire i sermoni di quelli per cui la tecnologia, invece di essere un prodotto prettamente umano, è sempre svilente della nostra essenza?
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