Filosofia
Dopo il secolo dei genocidi è il nostro il tempo del fanatismo?
Il più cospicuo e pericoloso errore intorno alla natura dell’individuo, ogni qualvolta si parla del male, è nella convinzione che, da Platone in poi, caratterizza un tratto universale del pensare. La fonte è laddove Platone afferma che “Nessuno è spontaneamente (o volontariamente) malvagio” [Timeo 86d-86e].
Se davvero “nessuno fa il male volontariamente”, allora la conclusione implicita è che “Ognuno vuole fare il bene”. Se ne può dedurre che la maggior parte del male è fatto da gente che non ha mai preso la decisione se essere cattiva o buona (una variante che discende da questa dimensione è quella del male burocratico, ossia la tesi proposta da Arendt intorno “banalità del male”).
Siamo invece entrati in un’epoca carica di idolatria alla cui base sta la pratica fanatica. Forse torna utile e imprescindibile riprendere in mano Voltaire.
Ha scritto di recente Fernando Savater [Voltaire contro i fanatici, Laterza] che il fanatismo, più che un modo di manifestare il credo religioso oggi, è un modo di rappresentare la propria convinzione (religiosa, politica, culturale,…) e predisporsi a difenderla. “Nessuno è più pericoloso – scrive Savater – di colui che ha deciso di difendere con le armi la parte della ragione”.
A lungo abbiamo ritenuto che il nostro presente di ora fosse la risposta a cose che erano mancate in passato. Così dall’ultimo scorcio di Novecento abbiamo pensato che il nostro futuro dipendesse dalla risposta culturale che davamo in risposta a ciò che ereditavamo da un passato prossimo imbarazzante.
Abbiamo anche costruito gallerie di immagini, oggetti, parole, occasioni, un calendario civile che rispondesse al principio di riparare al torto. Su tutto ha dominato l’idea che bastasse mostrare le immagini degli stermini, della violenza esercitata sul corpo degli altri perché potesse darsi redenzione o almeno si aprisse la strada della riflessione e della scrittura di un nuovo patto di convivenza.
Non ce l’abbiamo fatto, bisogna dirlo.
Oggi noi sappiamo che questa convinzione era sostanzialmente una convenzione e che di nuovo si è aperto il tempo della violenza.
I praticanti della violenza sul corpo degli altri nei molti luoghi della morte contemporanea non sanno che farsene delle immagini degli stermini di massa del Novecento. Comunque sono immagini con cui hanno già fatto i conti e hanno deliberato che quelle immagini non solo sono per loro irrilevanti, ma alla rovescia, li “premiano”.
La guerra ai carnefici del nostro tempo è una guerra al fanatismo. I fanatici non si lasciano commuovere da immagini che raccontano l’efficacia della loro potenza distruttiva.
Una sola cosa, forse, temono o paventano i fanatici del nostro tempo. L’esercizio della disobbedienza e la pratica diffusa della disobbedienza.
Non temono gli appelli, le manifestazioni di piazza, le dichiarazioni altisonanti. Sono tutti atti che documentano la loro potenza. Ciò che i fanatici temono invece è il dissenso. Ovvero il pensare diverso e soprattutto imprevisto, imprevedibile e non controllabile. E’ lo stesso timore che hanno i movimenti populistici quando si presentano come fautori della redenzione degli oppressi verso i quali si candidano e si accreditano come nuovi liberatori.
Nella retorica del fanatico il problema non è mai se qualcuno è contro, ma sta nel timore di non prevedere l’atto di critica e se quell’atto è in grado di espandersi non perché naturalmente potente, ma perché incontrollabile, ripetibile, adottabile da chiunque. Ovvero capace di diventare virale. Dentro e dietro sta una componmente esenziale che nessun fanatismo (religioso, politico,…) sopporta: l’ironia. E dietro l’ironia, quando si parla di fanatismo tornma a spuntare la silhouette di Voltaire.
Forse per molti Voltaire è tornato ad aver significato nei giorni di “Charlie Hebdo”(ovvero l’8 gennaio 2015). In verità è una partita iniziata molto prima. Per la precisione il 14 febbraio del 1989. In quel giorno di 27 anni fa, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran, annunciò alla radio la condanna a morte dello scrittore di origine indiana Salman Rushdie. La colpa di Rushdie era aver scritto I versi satanici (The Satanic Verses), un romanzo in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta.
Pochi giorni dopo a Trafalgar Square in una manifestazione a favore di Rushdie qualcuno espose uno striscione con scritte due sole parole: “Avvertite Voltaire”. Non offendeva nessuno, ma diceva l’essenziale. La battaglia per il diritto semmai era cessata, tornava di nuovo a occupare il centro della scena. Da allora non ha mai mollato la presa. E’ la tolleranza la categoria con cui dobbiamo tornare a fare i conti.
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