Filosofia
Diario al tempo del virus (2)
Ingeborg Bachmann, parlando alla radio del Diario di fabbrica di Simone Weil, diceva che aggravio suppletivo alla condizione dei lavoratori consiste spesso nel non avere parole per narrare la propria esperienza di sofferenza. Per questo lei, Simone, scrive per loro.
E, mutatis mutandis, questo può valere per ciò che sta accadendo in questi giorni.
Leggo nei social di come stiano passando le loro giornate moltitudini di italiani (ma la parte vale per il tutto: di uno qualunque tra i cittadini del mondo globalizzato affetto dal morbo, salvo che essi non cantano sui balconi), e non mi stupisco affatto. I più cercano di restare in colloquio con gli amici, i propri cari, i colleghi di lavoro. Oppure con le figure familiari dell’universo televisivo o social. Nel primo caso, molto maggiormente gli over-sessanta, nel secondo caso, le persone che hanno fatto in tempo ad addomesticarsi alle tecnologie virtuali dell’ultimo decennio.
Il clima percepito, per quanto mi pare di constatare, è quello di un entusiasmante esperimento sociale, ma posso immaginare che tra poco la tonalità emotiva cambierà, e non si sarà più in grado di gestire il nuovo sistema di vita, la condizione nella quale toccherà di abitare i futuri giorni convulsi e inediti.
Sono uscito per fare la spesa, e vi risparmio il dettaglio delle merci acquistate. Non mi chiamo Georges Perec, lui di certo avrebbe compulsato ossessivamente ogni singolo articolo, per farne una lista in sé poetica. Ma stiamo parlando di un genio.
Per me, basti dire che tra i beni acquistati sono riuscito a rimediare l’alcol etilico, in una confezione inusitata: ero abituato a vederlo nella plastica trasparente, che faceva risaltare il liquido roseo: adesso il flacone è bianco, con un’inquietante nastro di guarnizione bluastro che segnala il chimico contenuto.
Il virus sta mutando velocemente le abitudini esistentive degli italiani, anche se ci vorranno giorni prima di alterare gli habitus. Per ora ci sembra di vivere in una serie netflix, dove la provvisorietà contingente si rifiuta al senso permanente delle mutazioni definitive. Sarà qualche forma di bias cognitivo, chissà.
Spiegando Kierkegaard ai miei alunni, oggi, parlavo dell’angoscia. Nonostante la manualistica abbagnaniana, non mi era facile addomesticare i tentativi concettuali del Danese. Fosse vissuto i questi tempi, ci avrebbe dato molto lessico su cui riflettere, Soren nostro.
Newton, nel periodo della peste a Londra, passava le sue giornate in operoso studio privato nella sua camera di Oxford. Molti di noi hanno solo Tagadà e il Grande Fratello televisivo, per schiacciare pomeriggi disabituati alla distrazione di esistenze anonime.
E tutti, proprio tutti, non importa se scienziati, filosofi, insegnanti, casalinghe, disoccupati, boomer o bimbminkia, ci troviamo nel guado dell’inaudito regalo di tempo da occupare. Tempo libero: Skolè, in greco. A scriverlo sembra bello, a viverlo, molto meno. Guardare il tempo è come immaginare lontano il profilo di un esercito che si avvicina, ed essere incapaci di prevedere quando e se giungerà. Questa interruzione eccezionale del tempo comune ci rende un po’ tutti come Giovanni Drogo.
Farne tesoro vale nella narrativa. La vita concreta è prosaica, puzza di noia e anedonia, di liti familiari e di incapacità comunicativa e riflessiva. Al di là delle frasi fatte dei libri da parrucchiera, nessuno o pochi sono abituati a star soli con se stessi. Forse i monaci, o i folli.
La poesia ci salverà, se ce la ricordiamo. Letteralmente, dico: far spazio alla memoria infantile, o ascoltare i grandi attori:
Andiamo a riprendere i libri di scuola, se non li abbiamo accatastati in cantina o riciclati in cambio di pochi euro ormai spesi. O semplicemente gettati nella spazzatura dove neanche i topi (rigorosamente vivi e cinesi) avranno saputo apprezzarla.
Il tempo ci sovrasta, non quello degli orologi, ma la durata bergsoniana scandita dal singhiozzo d’esistenza asincrona nel respiro dispneico della società tardo-industriale, la cui liquidità è superata dalla co-(i)mmunitas largita dal contagio.
A presto, forse. Oggi vi lascio con le parole del genio praghese:
Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato.
(Kafka)
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