Filosofia

Dei diversi usi di una parola: «genocidio» o «massacro» degli armeni?

20 Aprile 2015

In qualsiasi momento di una discussione che miri a risolvere una divergenza di opinioni (cioè a raggiungere una conclusione condivisa), deve essere consentito chiedere di precisare meglio l’uso dei termini, e chi usa un termine è tenuto a spiegare in che senso lo usa. Se non si raggiunge un accordo sull’uso dei termini si rischia di dover interrompere la discussione.

In questo breve intervento torneremo su questa fondamentale regola del Galateo della discussione, quella dell’uso del linguaggio, per contribuire alla riflessione sul controverso passato della Turchia.

 

Al di là dell’ovvio fatto che durante il primo conflitto mondiale sono stati massacrati milioni di persone, militari e civili, e che quindi le guerre sarebbe meglio non combatterle, in questi giorni, dopo l’intervento di papa Francesco che, in presenza degli armeni, ha rievocato i fatti accaduti un secolo fa durante il primo conflitto mondiale, e cioè lo sterminio di un milione di sudditi ottomani di religione cristiana, gli armeni, si è iniziato a vedere sui quotidiani, cartacei ed elettronici, un notevole interesse per la questione. Sia come sia, si è assistito all’ennesima reazione indignata del premier turco, Erdogan, il quale rifiuta di parlare di genocidio per quanto accaduto agli armeni, preferendo parlare di massacri dovuti al conflitto.

Siccome non siamo in Turchia, cercheremo di parlarne liberamente, consapevoli che da noi gli animi esacerbati non ci metteranno necessariamente le mani addosso né ci condanneranno alla galera perché abbiamo affrontato la questione.

Intanto, come si definisce l’atto “genocidio”? Leggete la definizione riconosciuta a livello internazionale presente su Wikipedia  (come si vedrà nella lettura, la neutralità della voce è messa in discussione da chi, per vari motivi, vorrebbe escludere dall’insieme degli atti genocidari alcuni eventi specifici).

Come si vede, oltre al massacro di popolazioni civili, risultano inclusi anche il tentativo e la pianificazione.

Se un atto è compiuto, il tentativo c’è ovviamente stato, ma si può per caso negare l’esistenza di una pianificazione? Siccome il governo ottomano dell’epoca aveva insistito sulla turchizzazione e sull’islamizzazione dello stato, iniziando a discriminare diverse minoranze, siccome oltre agli ordini per le deportazioni sono state date indicazioni sugli espropri e sulla spartizione delle proprietà degli armeni deportati, siccome i curdi sono stati invitati a massacrare e depredare le persone che sarebbero poi state abbandonate nel deserto, e siccome gli atti di sterminio (anche se così non lo si vuole chiamare) sono stati persino riconosciuti dal governo turco, nelle sue numerose repliche, forse vale la pena di chiedersi: perché ci si impunta tanto su di un termine?

Per vari motivi. Gli armeni vogliono, legittimamente, che la loro tragedia sia considerata alla stessa stregua di altri atti simili, in particolare, dello sterminio degli ebrei nell’Europa occupata dai nazisti (nei confronti dei quali potrebbero persino vantare un triste diritto di primogenitura), mentre i turchi, altrettanto legittimamente, vorrebbero evitare che venisse loro applicata l’analogia (l’identificazione) col nazismo. In effetti, tra gli attacchi personali l’argomento ad hitlerum è il più pesante che si possa usare, e, una volta usato, rende impossibile qualsiasi discussione, in quanto mira a squalificare l’interlocutore.

La domanda è: i turchi possono impedire l’analogia a suon di argomenti ad baculum (minacce) e di limitazioni alla libertà di espressione? Dipende. Forse in Turchia, ma non altrove. O, perlomeno, tali atti sarebbero un boomerang: probabilmente, potremmo pensare, hanno la coscienza sporchissima.

Ma chiediamoci anche se chi rifiuta il termine abbia buone ragioni.

Innanzi tutto, trascuriamo le debolissime allusioni all’origine di Bergoglio (il cui intervento è all’origine della polemica), che, essendo argentino, sarebbe influenzato dalla storia di un paese che ha accolto i criminali nazisti e che, essendo un papa, sarebbe influenzato dalla storia di una istituzione, la Chiesa, che li avrebbe aiutati (i criminali nazisti) a sottrarsi ai processi nel dopoguerra, anche perché si dimentica che Bergoglio potrebbe anche essere stato influenzato dalla storia della dittatura argentina e dai desaparecidos (quindi, da ideali di giustizia, avendo vissuto direttamente il dramma del suo paese).

Analizziamo piuttosto il seguente argomento, molto forte. I massacri contro gli armeni non sarebbero un genocidio, si potrebbe sostenere (è stato fatto), perché sono avvenuti in guerra, e perché non sono stati pianificati.

Bene. Questo è l’argomento. Sulla seconda parte dell’argomento si può replicare che la mancanza di pianificazione è un’illusione. La premessa dovrebbe essere argomentata, ma la ricerca storica ha riportato alla luce numerosi documenti, benché più o meno ben nascosti (e in gran parte distrutti), che lasciano intravedere una notevole organizzazione. All’occorrenza forniremo testi di riferimento (ma basta una seria ricerca in una biblioteca o in una libreria, e anche il web non scherza), dai quali emerge che diversi massacri erano già stati compiuti alla fine dell’Ottocento, nello stesso periodo in cui diventavano sempre più intensi i pogrom antiebraici nell’impero zarista (la cui polizia segreta metteva in piedi un falso, i Protocolli dei savi di Sion, che passerà alla storia per dimostrare il mito del complotto ebraico e giustificare le persecuzioni).

La prima parte dell’argomento che mira ad attestare l’incomparabilità tra il genocidio nazista e quello armeno è però seria, se è vero che il tutto è avvenuto durante la guerra (la prima mondiale) mentre invece il genocidio nazista…

Come? Non era in corso la seconda guerra mondiale, durante lo sterminio degli ebrei? Ma allora, se si era in guerra, neanche questo sarebbe un genocidio? Sembra essere questa la conseguenza più curiosa dell’argomento di Erdogan, che mira a escludere una qualunque comparabilità tra i due crimini contro l’umanità. Sembra, cioè, che il premier turco finisca con l’entrare in contraddizione con quanto ha asserito (la differenza) per giustificare il rifiuto del termine, facendo in definitiva emergere profonde affinità.

Ecco, questo è il succo della nostra argomentazione, che mira a chiamare le cose con il loro nome. La Turchia di oggi dovrebbe iniziare un serio percorso di riflessione sul proprio passato, invece di continuare ad asservire la storia agli interessi di una (piuttosto miope) politica.

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