Filosofia
Davanti o dietro l’obiettivo: l’immagine vaga del mondo
Caro Cigno Nero,
a proposito di carta e penna, sospesi i viaggi e con molto più tempo a disposizione, proprio come è successo a Vittoria, mi sono soffermata sul patrimonio di ricordi accumulati con fotografie in bianco e nero o a colori, e tra queste hanno catturato la mia attenzione quelle più spontanee, fatte senza mettersi in posa, che abbracciano un po’ tutta la mia storia. Forse per un istintivo rifiuto di ciò che il presente impone, ho scoperto di essere attratta soprattutto dalle fotografie del lontano passato: foto di gruppo degli invitati a un matrimonio, a una festa di compleanno, lunghe tavolate di allegri commensali, file colorate di persone all’entrata di un museo o di un teatro. Quasi sempre i volti ritratti appaiono sorridenti (per la felicità del momento, per circostanza, per l’invito del fotografo a “un sorriso per la stampa!”) perché vogliamo ricordare i momenti belli, affinché non si perdano e rimangano a disposizione della nostra memoria.
Il tempo della fotografia è il passato, un passato che però può avere ancora una risonanza, essere sentito come molto vicino, prossimo, con i suoi effetti ancora nel presente, di tenerezza, gioia, stupore. Altre volte invece quello stesso passato diventa remoto, e ci accorgiamo che certe immagini sono consegnate definitivamente a un tempo estraneo, se non addirittura ostile a noi. Ma oggi l’immediatezza e la facilità con cui condividiamo sui social gli scatti dei nostri smartphone hanno fatto perdere alle fotografie il fascino di un tempo.
Perché facciamo e ci facciamo fotografie? Qual è il senso del fotografare? Da dove viene il desiderio di catturare, fermare in immagini la realtà?
Nicoletta
Cara Nicoletta,
la risposta più immediata alle tue domande potrebbe essere: perché è un modo per fermare il tempo tentando di renderlo duraturo, di prolungare il momento, di creare ricordi più “accessibili” nel loro essere visibili. E in parte è così.
Ma l’aspetto più interessante della fotografia sta nel suo rapporto con la realtà, e quindi con la verità. Si può definire “reale” quello che viene catturato da uno scatto fotografico? Quell’immagine resta vera anche se è stata sottratta allo scorrere del tempo?
È stato Roland Barthes a dire che la fotografia è una particolare forma di allucinazione, falsa al livello della percezione, vera al livello del tempo: se da un lato ciò che ritrae non è presente, “non è qui”, dall’altro però si tratta di qualcosa che effettivamente è esistito, un “è stato”. L’immagine fotografica fonde così una assenza, potremmo dire nel “qui e ora”, del soggetto o dell’oggetto fotografati, con la certezza che quanto raffigurato è effettivamente esistito, lì dove possiamo vederlo. Quando guardiamo una fotografia il nostro diventa uno sguardo paradossale che può limitarsi solo alla superficie di quell’immagine che esploriamo senza però riuscire a penetrarla, una immagine che pur essendo totalmente esteriore, e quindi priva di intimità, non sarà mai del tutto accessibile e perciò resta misteriosa.
Le fotografie “immortalano” ciò che non sarà più, ci mettono quindi in contatto con la morte, che si tratti di momenti che ci sono stati sottratti dallo scorrere del tempo o di persone che hanno fatto parte della nostra vita e non ci sono più. Ed è per questo che il sentimento prevalente che proviamo guardandole è la nostalgia: di quello che è stato e ora non c’è più. Ma allo stesso tempo, l’immagine divenuta oggetto, a cui possiamo accedere ogni volta che vogliamo, che possiamo anche tenere tra le mani, con la sua presenza ci ricorda che a quella nostalgia siamo sopravvissuti, cercando la giusta aderenza alle dimensioni del tempo, tra il familiare e l’incerto.
Lo sguardo che si posa su quell’evidenza non scomponibile che è una fotografia diventa poi una questione di etica, se dalle immagini della nostra storia personale lo spostiamo in direzione di altre storie, quelle raccontate dal fotogiornalismo, che sono storie di dolore, ingiustizie, morte. In Etica e fotogiornalismo, il fotoreporter Ferdinando Scianna si interroga sul diritto-dovere di raccontare il mondo attraverso il gesto fotografico, che è un gesto sempre in bilico fra ritrarre e aggredire la realtà. Che valore ha quell’ “immortalare” per chi guarda immagini di guerra e sofferenza? C’è ancora nostalgia? Il dolore degli altri dovrebbe appartenerci come condizione condivisa di umanità, permettendoci di empatizzare con storie che non sono le nostre. Ma quei volti, quei corpi ci sono estranei, sono un “è stato” che non ci appartiene. Come ha messo in evidenza Susan Sontag, non riusciamo a “sentire” davvero quello che certi scatti fotografici vogliono comunicarci. A quel dolore ci siamo assuefatti, per sovrabbondanza di immagini che non toccano più i nostri cuori e le nostre menti. E se pure riescono nell’immediato a smuovere qualcosa in noi, non restano impresse nella nostra mente come sulla pellicola.
Proprio perché convinto che “la fotografia mostra, la fotografia non dimostra”, Scianna ha sempre creduto che le immagini da sole possono ingannare e confondere. Il più delle volte non dicono il vero. Ogni fotografia contiene virtualmente un “testo” – ci dice Scianna, che ha sempre voluto scrivere in prima persona i testi per le sue fotografie – diviso tra ciò che aveva in mente chi l’ha scattata e l’interpretazione di chi la guarda. Rendere esplicito quel testo significa raccontare la verità delle immagini, provare a farle diventare reali oltre quello che mostrano; significa isolarle da tutto il resto, facendo convergere il nostro sguardo proprio lì, come all’interno di una cornice che amplifica tutto quello che, diversamente, rimarrebbe troppo lontano per toccarci. Solo così è possibile cogliere la differenza tra un “morto disegnato” e un “morto fotografato”.
C’è allora un rapporto ambiguo tra fotografia e verità, che non si risolve però con la quantità di immagini. Al contrario, proprio l’eccesso di scatti dei nostri smartphone, producendo un eccesso di “è stato”, ne ha cambiato il tempo, spostando il nostro rapporto con le fotografie da quel passato capace di risuonare in noi, come scrivi, ad un presente in cui non c’è spazio per nessuna nostalgia. Una nostalgia che invece era benefica nel darci un senso di continuità con ciò che eravamo come con quello che non siamo più.
Oggi andiamo alla continua ricerca dello scatto perfetto da pubblicare sulle nostre bacheche social. Siamo diventati quelle bacheche social, guidati dall’ansia di coincidere con una storia virtuale per immagini che però non ci soddisfa mai, perché la nostra identità è mutevole, a differenza delle immagini. E così scattiamo, ritocchiamo, usiamo filtri, prima di postare e rendere pubbliche le nostre foto. Se poi ci accorgiamo che non ci rappresentano più, le cancelliamo. Sono fotografie concentrate unicamente sul soggetto, dove lo spazio intorno alla scena inquadrata è andato via via scomparendo. La fotografia digitale è diventata sempre più una collezione di frammenti che ci restituiscono un’ “immagine vaga del mondo”, per usare le parole di Luigi Ghirri, il fotografo che ha saputo prevedere con largo anticipo i tempi della cultura digitale in cui ancora più arduo è diventato il tentativo di riassumere quel mondo spezzettato in una moltitudine di singoli frame.
Nella sovrabbondanza di scatti frammentari è altrettanto difficile rintracciare quello che Barthes chiama punctum, qualcosa di simile ad una freccia che parte dalla scena raffigurata e ci trafigge, come se l’immagine prendesse vita e iniziasse a guardarci, attirando la nostra attenzione, ma senza volerlo, su un particolare. Un qualcosa che allo stesso tempo si aggiunge alla fotografia pur facendone già parte.
Le immagini digitali, modificabili, condivisibili in tempo reale e sostituibili hanno preso di fatto il posto delle fotografie analogiche, oggetti reali da tenere tra le mani, testi su cui siamo stati scritti sotto forma di immagine, che erano il frutto della sorpresa, dell’ imprevisto, delle “uniche occasioni”. Quelle vecchie foto, in bianco e nero o a colori, anche quando erano sfocate, mosse, sovraesposte avevano la bellezza del tempo insieme lontano e presente, della pellicola che diventa traccia chimica di noi, a dispetto del mutare della vita. E forse proprio in questo stava il loro senso. Erano piccoli mondi, per noi tutt’altro che vaghi e frammentari, non solo contenitori, ma anche testimoni di una storia. La nostra.
Per Luigi Ghirri la fotografia è un pensare per immagini che mette insieme realtà, immagine di quella realtà e immaginazione. Se l’immaginazione ci permette di scorgere l’insolito nel “già visto”, oggi, che la fotografia è una collezione di frammenti, è ancora possibile pensare quell’insolito?
Maria Luisa Petruccelli
Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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