Filosofia

Costruttori di responsabilità

26 Febbraio 2021

Caro Cigno nero,
abbiamo ancora vivo il ricordo del violento attacco al Capitolhill di Washington, e del veemente comizio istigatore di Trump, con tutte le indiscutibili sue responsabilità, riconosciute ora anche dal “vichingo” a processo. Già: RESPONSABILITÀ! Anche da noi non si fa che parlare di responsabilità e di responsabili/irresponsabili (crisi irresponsabile – opposizione responsabile – tempo della responsabilità).
Il Dizionario Treccani definisce responsabile (giuridicamente): “chi può essere chiamato a rispondere delle proprie azioni e della violazione colposa o dolosa di un obbligo, rendendone ragione e subendone le conseguenze”. E ancora, in senso più ampio: “Chi si comporta in modo riflessivo ed equilibrato, tenendo sempre consapevolmente presenti i pericoli e i danni che i propri atti o decisioni potrebbero comportare per sé e per altri, cercando quindi di evitare ogni comportamento dannoso”. Ruolo impegnativo quello dei Responsabili! Per questo il Presidente Mattarella, mentre si cercavano in Parlamento i “responsabili”, detti da qualcuno “voltagabbana”, ha usato il più semplice “costruttori”, anche come argine ai “rottamatori”? E che dire dell’uso delle espressioni: capitale umano per persone; poltrone per incarichi istituzionali; mettere le mani nelle tasche degli Italiani per deliberare nuove tasse; trovare la quadra (di bossiana memoria, in canottiera) per trovare una soluzione; combriccola di strozzini per commissione europea.
Questa degenerazione del linguaggio politico, in aggiunta a toni arroganti, violenti e volgari squalifica non solo i politici impegnati in questa triste gara, ma tutta la politica, spingendo i cittadini verso l’antipolitica. Basterebbe una maggiore attenzione da parte delle persone più sensibili ad elevare il complessivo livello culturale della nostra società?

un utopista

 

Caro Utopista,
ad Alda Merini piaceva chi sceglie con cura le parole da non dire. Cosa apparentemente insolita se pensiamo che di parole ne usiamo davvero tante; soprattutto, ci serviamo di parole per spiegare altre parole. Come insolito è accostare la cura alla sottrazione, quando siamo abituati a pensarla come un “più”.

Ma le parole non sono mai solo parole, lo abbiamo visto con l’episodio di Trump che apre la tua mail. Nello specifico, Trump le sue parole le ha affidate ad un paio di tweet in cui, prima accusa i democratici di voler “rubare” le elezioni e dopo, rivolgendosi ai responsabili dell’assalto al Campidoglio, scrive: “non permetterò che veniate trattati in maniera ingiusta”. Ma quando Twitter blocca il suo profilo, l’ex presidente degli Stati Uniti, dimostrando di conoscere bene il rapporto tra consenso e potere in politica, fa diventare le parole del suo tweet le parole di 75 milioni di “Patrioti” Americani – quelli che lo hanno votato  – e la “censura” cosa che non riguarda solo lui ma 75 milioni di persone  – tutti, lui e loro – non più responsabili, direttamente e indirettamente, di azioni violente, ma accomunati dall’essere vittime di una ingiustizia. Se pensiamo che il social network che ha oscurato Trump è nato con l’intento di essere, secondo la definizione che ne dà il co-fondatore Jack Dorsey, il contenitore di “una breve raffica di informazioni irrilevanti”, ci appare chiaro quanto le parole di Alda Merini abbiano più a che fare con la qualità che con la quantità, e quanto quella cura indichi innanzitutto una responsabilità. Perché le parole hanno un peso, ce l’hanno nella vita privata come in quella pubblica. Un peso che possiamo scaricare non assumendocene la responsabilità (come ha fatto il “vichingo” a processo, ma anche lo stesso Trump) o di cui possiamo farci carico. E in politica la scelta delle parole può fare la differenza, perché si tratta di parole pubbliche che incontrano il nostro privato. Così quando il linguaggio della politica usa “poltrone” per riferirsi al lato peggiore degli incarichi istituzionali, a degenerare, insieme al linguaggio, è l’idea che abbiamo della politica, il cui senso è sempre stato quello di intercettare i bisogni di una comunità per poi tradurre le idee in azioni. Per passare dalle idee ai fatti c’è però bisogno del consenso, e il consenso si ottiene con le parole, che andrebbero comunicate nel modo più chiaro possibile, avendo ben presente che quello tra politici e cittadini non è un dialogo privato, per cui, non essendoci spazio per un confronto diretto, fondamentale è la trasparenza del linguaggio. Dove trasparente deve essere il sistema di idee in cui si crede e di cui ci si fa portavoce. Una trasparenza che invece abbiamo barattato col voyeurismo che ci ha fatto desiderare di aprire il parlamento come “una scatoletta di tonno” e che ci fa esaltare quando i politici si “asfaltano” tra loro a suon di parole. E allora il consenso lo diamo con la pancia, perché le parole della politica non sanno più parlare alle nostre teste e ai nostri cuori, o forse siamo noi a non saper più distinguere, tra le parole, quelle che non andrebbero dette. Vero è che nella comunicazione la responsabilità non sta mai solo da una parte, ma è ben distribuita tra mittente e ricevente, e il consenso è quindi anche una nostra responsabilità, perché è uno strumento di potere che consegniamo a chi deve portare la nostra voce, farsene carico, nella speranza che non ne abusi.

La deriva antipolitica non è altro che l’esito del cortocircuito tra linguaggio, consenso e potere, dove si parla, scegliendo la forma confidenziale, solo per ottenere consenso e non per sensibilizzare o informare, e quel consenso lo si usa per giustificare se stessi e le proprie azioni, esercitando un potere altrettanto personale in un contesto che è sempre meno, da ambo le parti, sociale.

Ora, per interrompere questo cortocircuito basta, come ti chiedi, una maggiore attenzione? L’esempio del presidente Mattarella che sceglie con cura le parole da non dire e ne trova così una che è anche immagine di ciò che dovrebbe tornare a fare la politica – costruire – ci suggerisce che parole e potere condividono la stessa responsabilità, e sicuramente non può esserci responsabilità senza attenzione. Ma quell’attenzione che siamo soliti associare ad uno sforzo di volontà, che poi magari è anche quello che chiediamo ai politici, a poco serve se l’intento è un radicale cambiamento, culturale e sociale. L’attenzione di cui c’è bisogno è di altro tipo, è quella che lascia il pensiero sospeso, disponibile, vuoto e permeabile al suo oggetto. Questa idea di attenzione Simone Weil l’aveva maturata dall’esperienza dell’insegnamento, che le aveva permesso di capire quanto gioia e piacere fossero indispensabili per l’apprendimento, proprio come la respirazione lo è per i corridori. La vera attenzione quindi non è una questione di volontà quanto di desiderio, un desiderio che viene dal piacere di fare quello che si fa. Sarebbe così assurdo portare questo concetto dalla classe scolastica alla classe politica? Pensare alla politica come ad una attività che si fa per gioia, con gioia, forse è difficile, visto il clima che si respira da tempo dentro e fuori le aule del parlamento; eppure per Aristotele, che ci ha sempre visto come animali politici, la polis (che è la radice della parola politica) non poteva che essere compimento e condizione dell’eudaimonia del cittadino, ovvero di quello stato di benessere derivante dall’essere in compagnia di un “buon demone”.

Se insieme a Simone Weil pensiamo all’attenzione come a qualcosa che può radicarsi in noi tanto da diventare naturale come inspirare ed espirare, se consideriamo la possibilità di fare posto a pensieri nuovi sospendendoci tutti – “noi” e “loro” – almeno per un po’, in quel frastuono di toni arroganti, violenti e volgari così facili da diffondere, vista la quantità e la varietà di mezzi a disposizione, il silenzio di ogni parola che si sceglie di non dire potrebbe ridare respiro ad una politica che da tempo il suo buon demone lo ha lasciato indietro. È un’idea utopica, ne siamo tutti consapevoli. Ma dopotutto l’utopia non è mai stata un punto di arrivo. È, invece, la direzione.

 

La politica ci ha abituati alle frasi ad effetto. E sono quelle che molti associano alla trasparenza. Chi sceglie con cura le parole da (non) dire, invece, rischia di non essere ascoltato. Allora, a proposito di utopie, se la responsabilità non è solo dei politici, ma anche la nostra, sarebbe davvero così assurdo portare quell’attenzione di cui parlava Simone Weil dalla classe scolastica alla classe politica?

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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