Filosofia
Cosa può raccontarci una cotta? Genitori e figli nel tempo presente
Caro Cigno Nero,
mia figlia adolescente ha la sua prima “cotta”. Io come mamma sono intenerita, ma anche infastidita. Mi chiedo perché. Come si fa a lasciarli andare?
Chiara G.
Cara Chiara G.,
più che dalla domanda che poni, potrebbe essere interessante partire dalla sua premessa, ovvero da ciò da cui è sgorgata.
In poche e asciutte parole hai delineato la relazione tra una madre e una figlia, fotografandola in un punto preciso della loro storia.
È dalle origini di questa storia che si potrebbe iniziare allora, perché ‒ come spesso accade ‒ è l’origine, il prima, che meglio ci consente di leggere il dopo.
E poi c’è l’origine delle parole, di quelle che usi, che pure potrebbe risultare più loquace di quanto ci aspettiamo.
“Adolescente” viene da “alere”, nutrire. Declinato al participio del tempo presente, indica un avvenimento in corso, cioè “chi si sta nutrendo” adesso. Comunemente l’alimentazione è il pensiero fisso nel nostro rapporto di cura con l’infanzia, ma l’adolescenza ci dice che il cibo è nodale anche in questa fase, e non solo per l’appetito proverbiale che la contraddistingue, ma perché crescere comporta una fame straordinaria di vita che ha l’urgenza di essere appagata.
“Cotta” è poi un termine apparentemente buffo, ma tutt’altro che ingenuo. Mutuato dall’ambito culinario, indica la prima infatuazione: come i cibi a contatto con il calore perdono le loro proprietà originarie e ne acquisiscono di nuove, così l’adolescente che ha preso una cotta non è più lo stesso e non lo riconosciamo più. Non è un caso che siano gli adulti ad usare questo termine per definire questo stato dei figli, quasi a sminuirne la portata, del tutto dimentichi di quei batticuore sconvolgenti che hanno provato in gioventù.
Ma forse il termine più significativo è il “fastidio” che provi e di cui ti domandi. Unendo il “fasto”, inteso come orgoglio, alterigia, al “tedio”, nel senso di noia, ripugnanza, definisce una specie di malessere del nostro orgoglio. Del tuo, di mamma, in questo caso.
E perché mai la “semplice” cotta di una figlia adolescente dovrebbe nuocere al tuo orgoglio di madre?
Cosa sappiamo noi di una madre? Ogni madre ha una storia a sé, eppure è incredibile la sbrigativa facilità con cui oggi le si giudica, tutte, nessuna esclusa, senza considerare affatto la specialità di questa relazione abissale e complessa, che da quel giorno cambia un’esistenza. Ecco che ci sono madri attente e madri snaturate, madri surrogate e madri accudenti, primipare attempate, ragazze madri e madri adottive, madri single e mamme in carriera, mamme che uccidono o che abbandonano, mamme isteriche, depresse o inadeguate, mamme anaffettive e mamme iperprotettive.
A stupire ancora di più è la medesima disinvoltura con cui da quel giorno le si lascia sole. Non si tratta dei legami affettivi, che sono sempre una questione privata. Si tratta invece di un welfare che tradisce il nome che porta: sussidi inesistenti mascherati dal bonus di turno sono il magro contentino che consente di prendere fiato soltanto per qualche giorno. Già, perché se il lavoro non va troppo d’accordo con le donne, con la maternità è totalmente idiosincratico. Quando poi non si perde il posto, si aprono altre voragini: i servizi sono insufficienti, per cui, terminato il congedo, lo stipendio serve per pagare la babysitter, e allora che si fa? Spesso si sceglie di riununciarvi, al lavoro. Se invece si ha la forza economica di mantenerlo ‒ il che è già paradossale ‒, c’è la cameretta da comprare, il guardaroba da rinnovare, la casa da tenere in una condizione quantomeno vivibile, ci sono i pasti da cucinare, le lavatrici da fare e i panni da stendere, i compleanni e le attività pomeridiane extrascolastiche. Sempre i nervi da tenere saldi e il cuore da tenere aperto.
È da qui che inizia una storia nuova di mamme che, a differenza delle precedenti, sono cresciute con la consapevolezza dell’emancipazione, dei loro diritti; che hanno studiato, viaggiato, conteso per un posto di lavoro. Con l’eclissi del welfare durante la maternità, si ritrovano costrette a una serie di rinunce, più o meno consapevoli per sopravvivenza, che determinano una solidificazione nel nuovo ruolo cui fa da contraltare uno svuotamento della precedente identità. Così succede che questa relazione diventa una sorta di riscatto per i sacrifici, una ragione di vita. Si vive un “tu sei il mio tutto e il mio tutti”, pretendendo tacitamente un “io sono il tuo tutto e il tuo tutti”. E pur di essere tutto e tutti, la mamma diventa camaleonte: la consolatrice, la confidente, l’amica con cui andare in discoteca, la partner dei tiktok.
A un certo punto però arriva un’ombra perturbante, al cospetto della quale le capacità magnetizzanti di una madre sembrano sgretolarsi: quella della coppia amorosa. E una mamma sa bene che lì non riuscirà a competere. Potrebbe essere qui la ragione per cui liquidiamo con una “cotta” il pericolo dell’amore? Potrebbe annidarsi qui il fastidio di cui parlavi? Chi è costui o costei che minaccia di derubarci della nostra identità, del nostro “essere tutto e tutti” per il figlio? Ecco che nella contemporaneità assistiamo a una singolare tendenza, impensabile per le generazioni precedenti. Significa qualcosa il fatto che oggi le mamme dicano “ti amo” ai figli? C’entra qualcosa che li bacino sulle labbra ancora alla scuola primaria, se non oltre, infrangendo e confondendo il confine corporeo che definisce l’identità e l’intimità di ciascuno?
Chissà che ne direbbe Aristotele col suo principio di non contraddizione e le sue ansie definitorie. Certo, i sentimenti non erano il suo forte, ma sulla sua scia potremmo azzardare che per il figlio una “mamma” è una mamma, non può essere anche altro, non anche l’amica, la confidente, non colei che ci bacia sulla bocca o che ci dichiara “ti amo”.
Questo straripamento, proprio di madri sempre più sole e sacrificate in una società sempre più richiedente e performativa, viene definito da Laura Pigozzi col neologismo di “plusmaterno”. Oltre a indicare i rischi che ne derivano per il figlio, la cui crescita viene distorta, se non arrestata, la psicoanalista ne mette in luce anche l’aspetto politico e sociale di un capitalismo che appunto capitalizza tutto e non contempla la perdita.
A proposito di maternità è la filosofa Adriana Cavarero a proporre un’angolatura diversa da cui guardarla: da sempre al bivio tra una visione idillica e zuccherosa ed una troppo vicina alla mera vita, nel senso di natura e animalità come secondarie e contrapposte alla cultura ‒ prospettiva che legittima la subalternità delle donne ‒, andrebbe invece considerata dal punto di vista della straordinaria portata conoscitiva che reca con sé. Essere madri è l’esperienza sconvolgente di un corpo singolare che viene attraversato dalla vita, da una specie di forza sovrumana di cui diviene parte e complice, e che genera un altro corpo. Anziché però ancorare questo processo alla mera biologia, nella tragicità dello strappo da cui ciascuno di noi proviene permette invece la conoscenza diretta e viscerale del nostro essere “viventi” come parte di un mondo molteplice.
Cosa c’entra col nostro discorso? Beh, l’individualismo atomistico e possessivo in cui la relazione madre-figlio rischia costantemente di scivolare è certamente una conseguenza di un mondo neoliberista e androcentrico che, come dicevamo, nega alle madri ogni garanzia.
Anziché cadere in questa trappola, che ci porta a vivere lo spazio privato come spazio di “privazione”, di chiusura, di immanenza, potremmo pensare a quanto il processo della maternità invece apra, alla partecipazione e al mondo in uno spazio orizzontale senza confini che ci mette in relazione vitale con tutto e tutti.
Potremmo così tornare al tuo interrogativo, al come facciamo a lasciarli andare. Più che questo, con Cavarero potremmo trovare il coraggio di guardare negli occhi la domanda segreta, quella che inverte soggetto e complemento, quella che le tue parole non dicono, e chiederci senza paura: se loro se ne vanno, dove andiamo noi?
Irene Merlini
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