Clima

Cortocircuiti

26 Dicembre 2023

I buoni propositi e i loro cortocircuiti possono diventare, per alcuni, ragione di costernazione, per altri d’ilarità. L’ostentazione della beneficenza o dell’impulso a fare le cose migliori quando poi si fa peggio, ossia l’ipocrisia, come abbiamo visto in questi giorni di rivelazioni di pandori strumentalizzati per generare un arricchimento personale illecito, è vecchia quanto il cucco ed è stata stigmatizzata da Aristofane nelle sue commedie, quando ne fu data per la prima volta nella Storia, almeno quella che conosciamo, un’interpretazione parodistica.

Non cessa di essere una parodia, anzi, viene rafforzato questo cortocircuito quando, scrostando la superficie del travestimento, appaiono le contraddizioni, fino al momento prima camuffate da buone intenzioni che lastricavano le strade su cui scorrevano fiumi di denaro.

Una delle parodie più attuali, senza che la maggior parte delle persone che vi aderiscono o sentono di farne parte ne sia cosciente, è il vitalismo che caratterizza le ossessioni ambientalistiche contemporanee.

Questo rinnovato vitalismo si è manifestato ultimamente soprattutto nelle giovani generazioni, spaventate dal futuro, le quali cercano di decifrare la realtà in maniera semplificata, per farsi tornare le cose che non tornano e quindi rassicurare sé stessi che le cause dei loro turbamenti siano identificabili e, pertanto, più facili da combattere.

La paura del futuro sembra che spinga le generazioni x, y, z o “ultima”, chiamiamola anche Matilde o Pina, o come si vuole, a considerare il cambiamento climatico, definizione che convive colla vecchia denominazione, ossia il “riscaldamento globale”, sempre meno usata viste le incertezze termiche che un cambiamento radicale del clima – che con certezza da parte di molti è causata dalle emissioni umane – può portare, come la causa di un’estinzione di massa.

Se in parte questa paura, per alcuni ecoansia, è fondata, poiché l’uomo, in quanto essere vivente, è parte della natura e, per sopravvivere, deve nutrirsi dei prodotti che la natura gli fornisce, da un altro punto di osservazione l’antropocentrismo insito perfino nell’ambientalismo superficiale che Greta Thunberg e i suoi adepti propagano da qualche anno a questa parte, può creare dei cortocircuiti a livello sia ideologico che attuativo, proprio perché il sistema è ben più complesso di ciò che appaia nell’olimpica semplicità degli schemi giovanili.

In tutte le società, fin da quelle primitive, non si assiste a una comunione dell’uomo colla natura, come si vorrebbe far credere secondo la mitologia del buon selvaggio o dell’elogio della semplicità primordiale, ma bensì a un rapporto costantemente pieno di contraddizioni e, soprattutto, di “sfruttamento” della natura piegandola alle proprie esigenze.

Tagliare alberi per costruire le proprie dimore, ad esempio, siano esse su palafitte o sulla terraferma, oppure al fine di bruciare il legname ricavato, per riscaldarsi, per cucinare o per fondere i metalli o, perfino, per coltivare i campi liberati dalla boscaglia, va in perpetua contraddizione colla comunione totale tra uomo e natura per come si vorrebbe intendere letteralmente.

L’uomo è l’unico essere vivente capace di modificare profondamente l’ambiente circostante per programmarne i cambiamenti a lungo termine e questo, storicamente, ha avuto e ha un’importanza fondamentale nello sviluppo di ciò che s’intende comunemente per civilizzazione.

La conquista di un territorio e l’espansione demografica sono caratteristiche che riguardano tutti gli esseri viventi, uomo compreso, e quando un ecosistema, fatto di sottilissimi equilibri tra specie e ambiente, collassa, la natura non si ferma ma continua a creare nuovi bilanciamenti e la vita, sebbene cambiata, continua. Ma senza allarmi, semplicemente si sposta o si adatta.

Il voler cristallizzare il pianeta in un suo equilibrio immutabile, ossia volendo stabilire una percentuale costante di ghiaccio e di acqua, di deserti e di boschi, di temperature e di quant’altro si possa immaginare è una romantica illusione che serve come placebo per le proprie coscienze e le proprie ecoansie.

Immaginare che solamente bloccando le emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra si riesca a contenere l’innalzamento della temperatura globale è l’illusione dell’ambientalismo contemporaneo. In realtà noi non abbiamo la più pallida idea di come muterebbero gli ecosistemi sulla Terra perché è semplicemente impossibile considerare tutte le variabili, non ci riuscirebbe nemmeno la pur potentissima intelligenza artificiale perché si baserebbe su dati assolutamente parziali. Un sistema complesso come il pianeta, colle sue perenni variazioni climatiche in ogni sua minima parte, dovute anche e soprattutto a cause astronomiche ed endogene, è solo parzialmente comprensibile e programmabile perché non sappiamo se a un certo punto, per cause che ci sfuggono, tutti i vulcani del mondo inizieranno a eruttare o se dei venti solari particolarmente potenti influenzeranno il clima o se l’inclinazione dell’asse terrestre subirà variazioni per cause gravitazionali e quindi le stagioni muteranno.

Di certo ogni giorno che passa, osservando il pianeta dentro e fuori, la scienza progredisce e ci mostra nuovi aspetti di questo sistema complesso, fornendoci informazioni per comprenderlo meglio.

Non sempre la comprensione, però, significa automaticamente coscienza di autoconservazione.

Una delle cause è il nostro ciclo vitale breve, non possiamo farci nulla, la nostra vita occupa un lampo nel computo temporale dello sviluppo del pianeta. Nel corso della nostra vita noi non possiamo percepire come cambino le condizioni della superficie terrestre a largo raggio per cui prima di vedere una città scomparire sotto i mari o una montagna innalzarsi centinaia di metri noi saremo già scomparsi, magari estinti. Noi possiamo solamente proiettare la nostra immaginazione nel futuro, con tutti i limiti che questa proiezione implica.

Le fasi fredde e calde del nostro pianeta si sono susseguite nel corso delle ere geologiche senza che ci fosse traccia dell’uomo per milioni di anni e solamente l’idea che 1,5 gradi in più possa alterare l’aspetto della Terra come la conosciamo ci fa sbroccare.

L’uomo vorrebbe che tutto restasse come nella propria infanzia, quando le estati erano estati e gli inverni erano inverni, con una primavera e un autunno ben definiti, in modo da ritrovarsi nel rassicurante schema vivaldiano delle quattro stagioni (composte peraltro in piena Piccola Era Graciale e quindi con una percezione del clima assai diverso da oggi) e poter programmare serenamente le colture e i raccolti, le feste e gli ozi, i bagni di mare e le settimane bianche.

Quando qualcosa sconvolge questi schemi l’uomo si sente in pericolo, perché una volta che la frutta non è più di stagione ma c’è tutto l’anno, perché proveniente dagli antipodi o da serre, oppure quando non sa più come vestirsi perché un giorno fa caldo e un altro fa freddo, e vede intorno a sé pianure, valli e foreste distrutte da inondazioni e tempeste fuori stagione, lui va nei pazzi.

Non c’è verso di spiegare che il clima non segue schemi così precisi e che nella storia del pianeta i disastri climatici sono sempre esistiti. Nel vuoto lasciato dall’ormai screditata magia religiosa, soppiantata dalla scienza, il fideismo si è metamorfosato in religione ambientalistica, con nuove divinità e nuovi sacerdoti e sacerdotesse, preferibilmente adolescenti o giovani. Un naturalismo religioso è quello che ci voleva per poter riportare l’uomo sulla retta via e fargli comprendere una volta per tutte la sua posizione nel mondo.

Accade però che, come in ogni religione coi suoi dogmi, le regole siano scritte dall’uomo e non dalla natura o dalla divinità e, pertanto, ci sia un vizio di forma che non consente un’obiettività reale.

I cortocircuiti, quindi, sono all’ordine del giorno e confliggono con tutto. Ma la cosa più disarmante è che confliggono anche nelle società che consideriamo primitive e molto più legate alla natura di quanto non lo sia l’uomo contemporaneo.

L’uomo della tribù africana, amazzonica o mongola non è come Francesco d’Assisi che chiamava fratello e sorella qualsiasi manifestazione del creato, contemplandola e benedicendola. L’uomo della tribù è un cacciatore e allevatore e uccide o alleva gli animali soprattutto a scopo alimentare ma anche per ricavarne pellami, grassi per l’illuminazione, e così via. L’armonia dell’Età dell’Oro, così vagheggiata da filosofi e poeti nei vari secoli, dove l’uomo viveva in sintonia con piante e animali, non esiste proprio.

In natura le iene non sono vegetariane così come le antilopi non sono carnivore e, non c’è nulla da fare, per vivere ogni essere vivente deve cibarsi di altri esseri viventi, che siano piante o animali o funghi e perfino minerali. Perfino le dionee o le drosere si nutrono di animali, nemmeno il mondo vegetale è esente dall’assassinio per non parlare delle piante velenose che spesso uccidono coi loro frutti e le loro foglie. E i parassiti, d’ogni tipo? Parliamone.

I ragazzi che manifestano per il clima probabilmente non conoscono “Il giardino sofferente” dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi, dove il tema della Natura matrigna è esteso anche ai vegetali, che soffrono quanto noi, in maniera diversa. Non sanno cos’è veramente la natura ma piace loro credere che sia qualcosa con una sua anima e una sua personalità, umanizzandola, pensandola come una divinità, un po’ come facevano i popoli antichi. Se pensiamo alle religioni greca e romana i monti e i fiumi erano divinità, così come le folgori e i boschi, c’erano le ninfe del mare e delle acque, perché i Greci antichi nominavano la natura. Così come facevano anche i popoli nordici coi loro demoni silvestri. Oggi forse i giovani sono più propensi a seguire le oscure mitologie totalmente inventate ma immerse nella natura di Tolkien o di film come Avatar, dove, nonostante tutto sia immaginario, c’è la suggestiva comunione e comunicazione collettiva sotto il gigantesco albero della vita. Probabilmente, in antiche religioni orientali, è ancora così e riti di comunicazione colla trascendenza attraverso la natura sono più comuni di quanto pensiamo noi dall’algido Occidente.

L’idea che, ad ogni modo, i giovani ambientalisti appoggiano è di difendere la natura tout court piuttosto che difendersi dalla natura stessa.

Quando succede una catastrofe come un’inondazione si dice che la natura si è vendicata perché troppo sfregiata, e in parte può essere vero. Ma non è una vendetta, è semplicemente un riappropriarsi di spazi che le erano stati sottratti senza adeguarli o mantenerli per la difesa di un eventuale ritorno delle acque.

Delle zone paludose dove si è effettuato un drenaggio e poi ci si è costruito sopra, inevitabilmente, se il terreno viene impermeabilizzato col cemento si allagheranno di nuovo perché il drenaggio è stato annientato da superfici repellenti che accumulano l’acqua meteorica, soprattutto se è abbondante e tutta in una volta. È solo una legge fisica, non c’è alcuna vendetta né la colpa è solo e sempre del famigerato riscaldamento globale. C’è invece la negligenza e l’ignoranza da parte dell’uomo che, senza conoscerlo, taglia e cuce il territorio come meglio gli aggrada, pur di specularci su.

Comunque, il neo vitalismo di moda attualmente, che fa del veganesimo, ad esempio, l’ennesimo pretesto per un ritorno alla natura e a un consumo di cibo limitato, è di una superficialità che fa spavento. Se da un lato s’invocano la scienza e le sue scoperte sulle variazioni di temperatura che causano fusione dei ghiacci, innalzamento dei mari, eccetera, e quindi una corsa verso le emissioni zero di anidride carbonica, cosa impossibile perché tutti gli esseri viventi che respirano la emettono, colla riduzione al minimo della combustione dei fossili, dall’altro si ignorano i rapporti che ci sono tra gli esseri viventi e si vuol difendere a tutti i costi l’orso che entra nel paesino di montagna e distrugge le case per cercare cibo, o assale gli escursionisti, oppure i lupi che, ormai soprannumerari, attaccano greggi e altre bestie, oppure i cinghiali che, diventati specie invasiva, insieme ai caprioli, devastano le coltivazioni che permetterebbero a un maggior numero di gente di cibarsi di vegetali.

Per molti di quegli ambientalisti gli animali hanno più diritti dell’uomo e l’uomo deve sempre e comunque rispettarli.

Io non sono d’accordo, perché se un ecosistema dove ormai l’uomo è inserito da secoli si è modificato ed è quindi profondamente antropizzato viene scosso dalla reintroduzione di specie predatorie potenzialmente pericolose per l’uomo stesso, si pone comunque uno squilibrio nuovo.

Dire che un tempo qui c’erano gli orsi equivale a dire che un tempo c’erano anche le tigri coi denti a sciabola e i mammut ma non per questo dobbiamo cercare di clonarli e reintrodurli, stile Jurassic Park. La natura si è modificata, ha trovato altri equilibri, così come ne troverà altri ancora dopo le urbanizzazioni e, magari, l’arretramento demografico dell’uomo. Ma se la densità abitativa di una valle alpina o montana è tale da mettere in pericolo gli abitanti e i loro manufatti questo non è assolutamente compatibile con grandi predatori che c’erano una volta e che sono stati reintrodotti o provengono da zone confinanti meno antropizzate.

Vorrei vedere cosa direbbe uno di questi ambientalisti se dovesse incontrare un giorno, durante un’escursione, un orso incazzato per i motivi suoi, o affamato, o impaurito e, magari, l’escursionista fosse lì col suo figlioletto a cui voleva mostrare la bellezza della natura e l’orso individuasse nel bambino la sua preda.

Gente che conosco e che vive in baite isolate in Trentino, da quando gli orsi sono tornati, vivono nel terrore e meditano seriamente di andarsene via perché gli animali sono intoccabili.

L’ambientalismo superficiale che diventa una religione, guidato dall’emotività e dall’irrazionalità, risulta più pericoloso che mai perché nonostante vengano nominate delle ricerche scientifiche che dicono questo e quello, la coerenza non è quasi mai uno degli aspetti fondamentali da rispettare. La vacca sacra, in India, può pascolare nelle strade, magari lasciando in pubblico anche dei sacri escrementi a diffondere batteri e altro, ma non si può toccare nemmeno con un fiore. Meglio morire di fame.

Il neo-vitalismo offre parecchi aspetti contraddittori. Intanto l’enfasi con cui si presenta, alla fine, mette in evidenza come questa smania vitale per difendere la natura a tutti i costi, ossia rispettarla per ciò che è, senza se e senza ma, porti a mettere in pericolo la vita stessa dell’uomo.

Il credere fermamente che portare le emissioni umane di anidride carbonica e gas fossili a zero (quella di origine naturale, che vien fuori da vulcani, torbiere, disgeli ecc., è incontrollabile) sia utile per contrastare il cambiamento climatico ha la conseguenza che questa transizione dall’energia fossile a quella interamente rinnovabile lasci sul campo morti e feriti. Perché rigenerare completamente sistemi che si sono espansi, sotto tutti i punti di vista, in un’ottica di consumo e con una popolazione in perenne aumento, richiede tempi e soldi che nessuno ha e nemmeno i cittadini che si proclamano a favore delle energie rinnovabili sanno esattamente cosa avverrebbe, ad esempio, della propria auto che va a metano. Il metano che, solamente pochi anni fa, era stato fatto passare per energia pulita e che aveva incentivato la costruzione e la diffusione delle auto ibride, improvvisamente si è rivelato una delle peggiori cause dell’effetto serra con conseguenti demonizzazioni delle auto alimentate a metano. Senza considerare, ovviamente, che la decomposizione degli esseri viventi ha come uno degli effetti la produzione di metano, da sempre.

Ma chi si può permettere l’auto elettrica che costa un botto e che ha ancora problemi di approvvigionamento, oltre al fatto che non è chiaro, in paesi che per produrre energia elettrica devono usare combustibili fossili, dove sia, alla fine, il beneficio per l’ambiente? Il fossile messo alla porta rientra dalla finestra, producendo una massa enorme di rifiuti tecnologici (le vecchie auto) e un inquinamento da combustione fossile per produrre energia elettrica in più. E la quantità di elettricità per un mondo che ha abolito gas, carbone e petrolio, sarebbe enorme.

I neovitalisti non indicano le misure esatte che si dovrebbero adottare, caso per caso, perché, in maggior parte, sono totalmente asciutti di sapere tecnologico o ne hanno un’infarinatura esteriore che però esclude il dominio di molte discipline scientifiche. L’approccio alla realtà di molti di loro è piuttosto ecosofico e, molto spesso, superficiale, magico, in qualche modo utopistico, perché non tiene conto dell’umanità nei suoi milioni di sfaccettature e di vita su un territorio che non conoscono ma che immaginano colle stesse leggi, gli stessi rapporti umani, le stesse considerazioni sulla natura dell’Occidente.

Quando Greta disse che, in caso d’inondazione o di catastrofe bisogna preventivamente riempire d’acqua la vasca da bagno (coll’acqua dell’acquedotto) e poi usare quella per bere e cucinare, altri giovani di altre parti del mondo, che erano comunque vicine a lei, le fecero notare che la vasca da bagno è un privilegio degli occidentali e, soprattutto, che l’acqua corrente comunale non c’è dappertutto come in Europa o negli Stati Uniti.

L’errore che i para-ambientalisti di casa nostra fanno spesso è considerare il mondo tutto uguale, senza complessità. Esattamente come i seguaci di qualsiasi religione, che immaginano un mondo magico e utopico governato da una divinità equipaggiata di provvidenza.

Il concetto di base del vitalismo contemporaneo riproduce esattamente gli stessi meccanismi del mondo che vorrebbe demolire perché è, in ogni caso, basato sul consumismo anche quello. E la complessità, che s’intuisce senza però essere affrontata razionalmente, sfugge di mano perché altrimenti un’analisi accurata di ogni fenomeno farebbe perdere, alla fine, la certezza delle teorie.

È da questa superficialità bio-ontologica che provengono le convinzioni che, se una specie animale in un certo luogo si è estinta magari si può reintrodurla, quasi a risarcire la natura di una perdita causata dall’uomo e dalla sua mancanza di responsabilità, mentre le cause possono essere molteplici e, certo, anche la responsabilità dell’uomo può essere una delle tante.

Le relazioni tra esseri viventi, in questa sorta di panteismo neoecologista, finiscono per essere viste sotto una lente deformante che ha più caratteristiche poetiche e liriche, comunque iperboliche, piuttosto che autenticamente scientifiche e finiscono per essere confuse con tante altre cose nel sempre ribollente calderone del consumo e del neoliberismo.

Ma perché queste nuove dottrine ecologiste e vitaliste hanno tanta presa, soprattutto sui giovani? Forse, e questo è il dubbio che si sviluppa osservando queste infatuazioni, perché esse sono in gran parte inattuabili e proprio per questo hanno il fascino dell’utopia, delineando in maniera sottilmente perfida un nuovo conformismo di massa che, anziché aiutare a comprendere meglio come funziona il pianeta nella realtà, fonda i dogmi di una nuova religione vitalista che dà in qualche modo delle risposte accettabili alle incertezze contemporanee. E, ovviamente, così facendo, non si risolvono i problemi veri del pianeta e dell’umanità che ci vive sopra perché si vedono da prospettive errate o parziali sebbene attraenti come tutte le utopie. Di più, questa infatuazione per l’utopia è sfruttata dalla politica, sempre avida di accaparrarsi i voti delle masse e quindi la nuova ecologia viene strumentalizzata ora a destra ora a sinistra, strizzandole l’occhio a seconda della necessità, riallacciandosi a mitologie precedenti.

Non dimentichiamo che anche il nazismo aveva un lato molto legato al naturalismo mistico e al rapporto del corpo umano colla natura, e in questo trovò una grande adesione a livello popolare. Blut und Boden, sangue e terra, sebbene concetto diffuso precedente al nazismo, fu inglobato nella propaganda hitleriana come parte fondamentale della propria mitologia di un’armonia tra popolo e terra, fondato sulla purezza della razza e tante altre implicazioni culturali tra cui l’incremento demografico per diffondere sempre più la propria etnia.

Il rapporto tra popolazione e contaminazione da rifiuti, siano essi radioattivi o no, per esempio, viene sempre affrontata solo in parte e nessuno mette sul piatto della bilancia il problema demografico. Anzi, al contrario, si paventa una decrescita della popolazione mondiale che, a detta di molti, sarebbe un disastro epocale, un nuovo collo di bottiglia attraverso il quale l’umanità debba passare, forse, prima di estinguersi. E, a lato di queste convinzioni, nessuno spiega che con meno persone al mondo ci sarebbero sicuramente meno rifiuti, servizi più efficienti (qualora ci fosse qualcuno che volesse renderli tali) e più risorse pro capite, senza bisogno di disboscare e desertificare altri territori, ché già bastano gli attuali disastri. Sono i cortocircuiti della contemporaneità ma, soprattutto, i risultati di una politica sterile e autoreferente basata su criteri fossilizzati e incapaci di vedere oltre.

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