Filosofia

Contro la meritocrazia

15 Febbraio 2015

Uno spettro anglosassone si aggira per l’Italia: lo spettro della meritocrazia, ideologia imperante e incontrovertibile, vessillo di chi vuole cambiare e progredire, di chi si batte contro le lobby e la casta, di chi vuole superare l’italietta, di chi vuole uscire dal provincialismo, di chi è moderno, di chi è intelligente e giusto, di chi merita insomma.

 

Mi spinge a scrivere sull’argomento la lettura dell’ennesimo articolo sul tema (tu quoque, Stati Generali!?) che però in sostanza non dice niente se non che l’Italia non è meritocratica (e quindi non merita). Come spesso accade sul tema, il titolo illude di svelare un arcano: “come si misura il merito?” che poi in realtà elude e delude, rinviando semplicemente a sette indicatori tutt’altro che misurabili oltre che arbitrariamente stabiliti. Articolo quindi tutt’altro che meritevole, come quasi tutti i pezzi promotori della meritocrazia che mi è capitato di leggere.

Approfondendo la ricerca a cui il testo di Quattrocchi allude (forse avrebbe meritato un link) sono emersi dati interessanti che svelano la semplificazione ed i reali criteri che sottostanno a queste famigerate classifiche: per libertà s’intende sempre libero mercato (chi ha deciso che un paese fortemente liberista sia più meritevole di un paese socialdemocratico, o con maggiore intervento statale?). Il riferimento al livello di istruzione prende in considerazione i soliti dati OCSE su cui la discussione è aperta, difficile in ogni caso, pretendere di comparare oggettivamente(!?) sistemi educativi di nazioni e culture diverse attraverso parametri quantitativi.

 

Il termine “merito” è sempre più diffuso e usato, sintesi dei valori positivi che ci mancherebbero e che dovremmo conquistare; si moltiplicano studi, ricerche, statistiche, parametri, valutazioni internazionali, istituti votati a creare classifiche, tutti per dirci se siamo o no meritevoli, e nel caso italiano, specialmente nella sistematica diffusione che i media ne operano, servono per farci sentire quanto e come NON siamo meritevoli; perché il popolo deve provare un sentimento di vergogna per il fatto di non essere al passo con i tempi, con l’Europa con gli Usa, persino con la Cina… oggi c’è qualcuno che vorrebbe essere al passo con la Cina.

 

È interessante notare che il termine meritocrazia nasce con una connotazione negativa in un’opera distopica di Michael Young che immagina una società nella quale si crea una nuova e perniciosa discriminazione: gli intelligenti e i volenterosi, ossia i meritevoli, governano sugli altri, avendo in più l’arroganza di sentirsi nel giusto.

In Italia, al di là dell’utilizzo diffusissimo in ambienti assai variegati, uno dei punti di riferimento sul tema è il noto libro di Roger Abravanel, le cui posizioni sono presentate anche sul sito www.meritocrazia.com.

Di fatto la maggior parte dei sostenitori italiani della meritocrazia hanno l’obbiettivo di combattere le lobby, le raccomandazioni, gli sprechi nepotistici. Ed è chiaro che la battaglia è molto sensata, importante e va portata avanti. Si tratta di semplice buon senso, ma sono chiaramente necessarie, per affrontare il problema, una diagnosi ed una terapia. E su questo livello i meritocrati appaiono spesso latitanti o deludenti.

 

Che cosa e perché non mi convince della meritocrazia? Ecco dieci problemi su cui occorre riflettere.

 

1. Implicazioni e presupposti della meritocrazia.

Come si definisce il merito? Chi lo valuta? affronterò poi alcune di queste domande.

Soprattutto, la meritocrazia presuppone una concezione antropologica assai discutibile: chi infatti può affermare di meritare ciò che ha? Nessun uomo ha meritato di nascere, la vita è un dato originario, provenga essa da Dio o dalle stelle o dal dna o dalla Storia. Nessuno può incidere sul che e sul come iniziale del proprio esistere, che esso piaccia o no.

Affermare il merito come legge determinante della vita della società significa rischiare di trascurare questa fondamentale legge della natura umana.

Spesso si propone l’equazione MERITO=INTELLIGENZA+IMPEGNO. Anche in questo caso i presupposti sono tutt’altro che chiari e trasparenti: come si misura l’intelligenza? Davvero pensiamo che il QI definisca il nostro pensiero? Cosa significa impegno? In quale direzione direzione e prospettiva è meritevole impegnarsi?

Non dobbiamo inoltre tenere conto che non partiamo tutti dallo stesso livello? Che la vita è data significa anche che con essa sono dati dolori, contraddizioni, drammi. Cosa meritavano o demeritavano i migranti morti in mare dopo esser stati caricati su barconi da criminali senza scrupoli e abbandonati da un’europa ripiegata sul conteggio delle proprie monetine?

Un’altra opzione che spesso accompagna la meritocrazia è l’individualismo se non una concezione concorrenziale degli esseri umani: chi merita di più? Anche tale presupposto è discutibile: il merito è legato alla collettività, ciò che ognuno fa incide, serve, facilita ostacola, impedisce aspetti della vita altrui. Anche attribuire il merito ad un singolo risulta quasi sempre una forzatura.

 

2. La meritocrazia è sempre in atto, ma non è questo il punto.

Per lui meritavano di vivere solo gli ariani. Come si vede il problema non è che ci sia merito, ma quale sia il merito.
Per lui meritavano di vivere solo gli ariani. Come si vede il problema non è che ci sia merito, ma quale sia il merito.

 

Da un punto di vista logico il concetto meritocratico può essere insidioso e creare inaspettati cortocircuiti. Non prevale la meritocrazia? Forse non merita di prevalere. Non è un controsenso raccomandare la meritocrazia? Chi è meritevole, ottiene. O, vista dall’altro lato, una qualche forma di meritocrazia è sempre in atto nella società, altrimenti non avverrebbe alcuna stratificazione.

Ciò che fa la differenza allora non è che sia o meno premiato il merito, ma è cosa riteniamo meritevole. Se si vuole giustamente migliorare la società, è su questo che va fatta la battaglia, altrimenti si rischia di rimanere in vuoti formalismi.

 

3. Cosa è meritevole? L’opzione culturale.

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Conseguenza dell’osservazione appena fatta è che non si può considerare il merito secondo parametri universali. Farlo significa essere gravemente ingenui o perfidamente in malafede.

È più meritevole aver fatto un master internazionale o aver lavorato come barista in un quartiere malfamato? Saper sconfiggere molti nemici in battaglia o risolvere problemi di geometria? Aiutare i poveri della propria città o aver accumulato molti risparmi? Saper analizzare un testo o leggere repentinamente un cambiamento meteorologico?

È un merito non esser mai stati licenziati? Ed è un demerito esser stati licenziati per aver affrontato a viso aperto una capo tirannico che faceva mobbing al collega sfigato?

È chiaro che rispondere significa operare delle opzioni culturali. Noi nasciamo dentro concezioni culturali che assorbiamo fin da bambini e che crescendo possiamo riconoscere, accettare, modificare o abbandonare. Esse sono in atto quando immaginiamo o parliamo di merito, esserne consapevoli è fondamentale per non cadere nell’assurdo o nel fanatismo; anche perché spesso le opzioni sono tra loro in conflitto, ed allora, a seconda di quale sia la nostra cultura, il nostro giudizio di fondo, una stessa azione o scelta saranno meritevoli o immeritevoli.

(Cfr. tra gli altri: Barbara Rogoff, La natura culturale dello sviluppo, Cortina, 2004.)

4. Cosa è meritevole? Lo spazio delle scelte personali.

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Un rischio implicito nella meritocrazia è favorire il conformismo. Quali curricula sono più meritevoli? Quali scelte e atteggiamenti? Si rischia di ratificare modelli etici che in realtà sono scelte tra le altre, e non necessariamente migliori. Una questione “classica” può essere il rapporto lavoro-famiglia o lavoro-tempo libero. Un lavoratore che rifiuti di fare “le ore piccole” in ufficio per stare con la propria famiglia o per coltivare un interesse o una passione, o semplicemente perché vuole del tempo per se stesso è meno meritevole? Un mio amico è da poco tornato da uno stage in Giappone presso uno degli studi di architettura più quotati al mondo. La normalità che ha incontrato era di dormire poche ore in ufficio e riprendere a lavorare. Lasciare lo studio prima di mezzanotte era considerato un disonore. I più meritevoli erano coloro che decidevano di dedicarsi completamente al lavoro. Ma questa è una scelta personale non più legittima di altre (anzi).

(su conformismo, scelte lavorative e orientative si veda anche il rapporto ISFOL 2013)

 

5. Il rischio del servilismo.

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In ambito lavorativo (e non solo) è abbastanza comprensibile che risulti meritevole chi consegue obbiettivi stabiliti dai propri superiori. Occorre ricordare che tali obiettivi non sono il Bene Supremo? E che quindi i meriti acquisiti sono drasticamente relativi? È chiaro che, soprattutto nell’ambiente aziendale, il rischio di considerare meritevole chi acriticamente si sottomette al volere dei capi è alto. Chi pone problemi, chi critica, è meritevole? Chiaramente esistono situazioni e manager molto diversi, e talvolta capita di cogliere l’occasione preziosa che offre chi ragionevolmente e sinceramente mette in luce una difficoltà. Ma spesso il discorso meritocratico è funzionale alla disciplina e alla gerarchia.

 

6. L’adorazione del Denaro

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Spesso è valutato più meritevole l’atteggiamento economicamente più fruttuoso. Questo è visibile quando si parla di pubblica amministrazione, di gestione d’impresa e spesso anche in riferimento a carriere e scelte personali. Tutto così semplice? Davvero il Denaro è il criterio da anteporre ad ogni altro desiderio o considerazione umani? Forse la meritocrazia è spesso il mantello con cui si copre il plutocentrismo e l’ossessione economica della nostra politica.

Non è un caso che, come già fatto notare, quasi sempre i meritocrati, anche nel criticare corruzioni e sprechi, non propongono altro che il libero mercato o, meglio, una logica di mercato, per cui la condotta migliore sarebbe quella che produce più ricchezza. Ma questa filosofia di vita votata al Denaro produrrà davvero una valorizzazione dei meriti? E soprattutto, produrrà una società migliore di quella attuale?

 

7. Timeo Britannos, et mora ferentes.

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Non mi fido degli anglosassoni. Non mi convincono la loro libertà individualistica né la loro trasparenza efficientistica. Ho simpatia per i difetti italici, per il nostro essere recalcitranti alle regole, per un orgoglioso e cocciuto senso di libertà un po’ anarchico che porta i nostri dittatori a dire prima o poi che non è possibile governarci. So che producono tanti danni, e tanti drammi e non voglio, come dirò poi, difendere lo status quo. Dico però che la nostra cultura non è quella anglosassone. Non credo che la meritocrazia all’americana possa essere la nostra via. Abbiamo altre risorse, e molte di queste hanno a che fare con una tessuto sociale fitto, con legami personali e locali di collaborazione e solidarietà. Non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca.

Anche perché gli anglosassoni ci stanno già colonizzando il cervello da decenni con prodotti di massa comunicativi, sottoculturali, tecnologici, virtuali ecc…

 

8. Meritocrazia e tafazzismo italico.

Se cercate su internet o sui giornali la parola meritocrazia (in Italia) la troverete nel 90% dei casi associata al verbo “mancare” o simili. Sarà anche vero, ma non posso nascondere l’impressione che sia una tendenza autolesionista, una necessità di creare delusione, malcontento, vergogna, umiliazione. Insomma tutti sentimenti da cui poi è facile ripartire e far qualcosa di meritevole! Molto raro invece trovare il racconto di esempi positivi, eppure ne esistono molti, non ne conosciamo tutti qualcuno personalmente? L’impressione che si voglia mettere alla gogna un’identità culturale per imporre più facilmente altri modelli è in me molto viva.

 

9. Chi e come valuta? Da Dio a Tripadvisor

Si tratta ovviamente di un problema fondamentale posto dal concetto di merito. Il buon vecchio Kant, dopo aver impostato un’etica razionale e illuministica ha dovuto rispolverare il buon vecchio Dio perché senza un giudice non si riusciva proprio a convincere gli uomini a fare i bravi. E lui stava in Germania, figuratevi da noi.

Senza un impianto valutativo molto potente non può esistere meritocrazia alcuna. E visto che gli attuali maestri di cerimonia sembrano intenzionati a lasciare il buon vecchio Dio in solaio (in cantina sarebbe offensivo) tocca a noi trovare il modo di giudicarci. Il che non è affatto semplice, anche per molte delle ragioni indicate in questo articolo.

A scuola, ad esempio, la valutazione è un gran problema. Io ci lavoro e sono ben consapevole che la valutazione non è necessariamente proporzionale al merito: capita che uno studente che meriterebbe più che altro due affettuosi calci nel sedere ottenga voti discreti, mentre un altro, che si impegna in modo lodevole e meriterebbe premi quotidiani, fatichi ad arrivare alla sufficienza perché meno dotato, perché cresciuto in un ambiente culturalmente povero, perché ha meno strumenti o sta passando un periodo difficile. Per non parlare dei criteri, degli obiettivi, delle competenze, delle priorità ecc. giungere ad una valutazione davvero oggettiva è impossibile.

Inoltre l’ambizione degli amanti della meritocrazia è quella di poter quantificare (il mitico meritometro). Ora la valutazione quantitativa di qualunque aspetto qualitativo e vitale è evidentemente un’operazione delicatissima, una forzatura da compiere con perizia e consapevolezza di ciò che andrà irrimediabilmente perduto, se ciò non fosse chiaro vi meritate di leggere un paio di capitoli della Crisi delle scienze di Husserl.

Per noi perspicaci figli del web è forse sufficiente pensare a tripadvisor, il simpatico social-rating di alberghi ristoranti e quant’altro. Se ci si limita alla valutazione numerica ed alla relativa classifica non si capisce un gran ché, e si rischia di convincersi che si mangi meglio ad un baretto originale che ad un ristorante di aragoste. Se invece si leggono le recensioni ecco che il servizio risulta molto più efficace ed utile. Perché? Per due ragioni: la prima è che si esce da quantitativo e si passa ad una descrizione che io posso valutare in base ai miei parametri ed alle mie esigenze soggettive, il secondo è che dalla descrizione ottengo informazioni sull’autore, sul soggetto della valutazione, che invece l’illusione oggettivante del voto numerico aveva celato; a questo soggetto io posso sentirmi vicino o lontano, posso decidere se prestare o meno fiducia e quindi ricalibrare il valore della sua recensione. (tutti noi facciamo così, non credo infatti che un morigerato e rispettabile signore di sessant’anni escluda un hotel perché valutato negativamente da un quindicenne che nella recensione scrive “posto zero divertente, ci hanno rotto la minkia xkè alle 4 di notte ballavamo nudi in corridoio con la musica appalla…”).

 

10. Un’educazione meritocratica rischia di generare mostri

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Osservazione ultima, ma forse più importante e legata alla prima (il cerchio si chiude).

Ogni nostra azione, affermazione, scelta, atteggiamento educa chi ci sta intorno. Affermare il merito come valore fondamentale del nostro vivere comune, o ancor meglio affermare che il merito dovrebbe essere il valore fondamentale, ma purtroppo così non è e quindi è un disastro come educa i nostri fratelli uomini?

Mi ha colpito poco tempo fa sentire una maestra elementare raccontare che gli alunni (soprattutto le femmine, a onor del vero) già dalle prime classi vivono una forte competizione sui voti e tendono a leggere le scelte della maestra come misurazioni, approvazioni o riprovazioni delle proprie perfomance o abilità. Personalmente ho conosciuto alunni ossessionati dal voto (spesso studenti non a rischio insufficienza). Sul mondo del lavoro l’ansia da prestazione è sempre più diffusa e comporta sempre più spesso disagi e ripercussioni gravi su persone e famiglie. Ora non è che io voglia criminalizzare la meritocrazia, Abravanel o il buon Quattrocchi, ma è chiaro che non interrogarsi sul nesso tra una cultura sempre più abilista (dalla mamma del bambino che chiede come prima cosa “quanto hai preso” e come seconda “quanto ha preso Pinco Pallo” alle convention aziendali dove si “caricano” i dipendenti sui nuovo obiettivi da raggiungere) e la crescente incapacità di godersi la vita sarebbe da incoscienti.

(cfr. tra gli altri: R. Medeghini, L’inclusione nella prospettiva ecologica delle relazioni, in L’educazione inclusiva, Franco Angeli.)

Il bambino e lo studente liceale perdono il gusto del sapere che è donato loro. Perdono la possibilità di provare gratitudine come primo sentimento di fronte al privilegio e alla responsabilità cui sono chiamati. La vita non è recepita come dono. “Bisogna guadagnarsela!” E sarà dura far capire loro, più tardi, che è una malevola menzogna, o, a seconda delle sensibilità, una troiata pazzesca, e che ciò che si riceve è sempre incommensurabilmente superiore a ciò che si guadagna.

Il lavoratore perde il gusto del creare, del modificare e migliorare la realtà, del collaborare al bene comune, al servizio dei suoi simili. Il dovere, la paura e l’ambizione dominano le sue giornate. Ne abbiamo fatto un infelice che realisticamente lavorerà pure peggio di come potrebbe, se si gustasse la vita.

Si alimenta il risentimento, si propone come ideale la meschinità del riscatto sociale. E i soldi, quelli che ci siamo meritati, onestamente.

 

Conclusione

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Non voglio nemmeno io buttare il bambino con l’acqua sporca. Il concetto di merito ha sicuramente un valore grande per la nostra civiltà. Proprio per questo va capito. Va approfondito. Occorre interrogarsi su esso e non assumere come ovvi modelli vuoti o inadeguati.

In Italia soffriamo sicuramente una mancanza di trasparenza, di valorizzazione dei talenti e delle idee, di onestà. Ma non si risolve il problema rivolgendosi contro la nostra identità e storia.

Perché il corrotto o il fannullone dovrebbero redimersi e cambiare atteggiamento? Esistono ottimi motivi, che non vanno dati per scontati e che costituiscono i fondamenti ragionevoli della scelta di valorizzare il merito.

Non si è meritevoli per il gusto di esserlo. Diffido in chi lo diventa per ambizione: se la meritocrazia è una strada onorevole per gli arrampicatori sociali allora non mi interessa; provo rammarico per chi lo diventa per dovere o paura, non credo stia costruendo se stesso e nemmeno la società.

Io voglio avere merito di quel che ho intorno se percepisco che ciò che ho intorno mi merita.

Credo che la strada più bella per affermare il merito sia il desiderio di sentirsi in unità con una positività che ci viene donata e al tempo stesso affidata da preservare e valorizzare.

Mi sembra che nella nostra storia e nella nostra cultura ci sia molto merito di questo tipo da cui attingere.

Credo che molto della bellezza dell’arte o dell’architettura sorte in Toscana, Umbria, Campania o Sicilia sia debitrice verso la bellezza del paesaggio naturale donato agli uomini che in quei luoghi hanno vissuto.

Se la vita è dono, è bellezza donata, allora io voglio esserne degno, ed è un onore per me poter collaborare alla valorizzazione di questa bellezza.

Se come insegnate colgo il dono unico e prezioso che è la vita, il pensiero di ogni singolo studente che incontro, allora farò il possibile per essere un insegnante meritevole.

Non credo valga solo per me, che sia una mia specifica sensibilità.

Credo sia più umano e utile che ci chiediamo “cosa hai scoperto di bello e grande oggi?” piuttosto che “che voto hai preso” o “quanto soldi ha guadagnato, meritatamente”.

 

Se qualcuno ha avuto la pazienza di arrivare fin qui continuando nel frattempo a chiedersi “ma che c’entra la foto di Adriana Lima?” la risposta è: niente. Però merita.

 

 

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