Filosofia
Contro la divulgazione scientifica
Non so esattamente dove vada a parare l’articolo che sto cominciando a scrivere, ma il titolo roboante mi è venuto proprio di getto e di cuore.
Chi vi parla è un economista e, almeno come amo descrivermi, un divulgatore.
E l’idea di questo articolo mi frulla in testa da settimane, se non da mesi: probabilmente c’è una parte di me orgogliosa e arrogante che resisteva all’idea di scriverlo perché, in parte, metterò in discussione proprio il lavoro che, ogni tanto, cerco di svolgere.
Mi riferirò, nell’argomentare, a due saggi di cui consiglio caldamente la lettura, entrambi ottimi esempi di divulgazione scientifica.
Uno si intitola Quanti? ed è un testo del fisico Teddy Rudolph dedicato alla fisica quantistica.
E l’altro è Newton & Co. geni bastardi (Rivalità e dispute agli albori della fisica), uno scritto di storia della scienza di Andrea Frova e Mariapiera Marenzana.
Brevemente sui due libri: il primo è un saggio di meccanica quantistica che ha il merito di utilizzare un’aritmetica elementare e un apparato grafico di scatole da cui le palline possono uscire in tre colori: bianco-nero-stato nebbioso. Stando bene attento a non usare mai espressioni quali “salto quantico”, Rudolph guida il lettore attraverso alcuni concetti chiave quali entanglement e collasso della funzione d’onda.
E soprattutto riesce nel veicolare un messaggio fondamentale: se non hai studiato fisica a livello almeno universitario, puoi arraffare l’intuizione, anche elevata, ma resti lì e non ci capisci un cazzo.
Comprendere la meccanica quantistica implica anni di studio, fatica, capocciate contro il muro: o così oppure sei fuori.
Qui sì che tertium non datur, con buona pace dell’iperinflazione dell’aggettivo quantistico, applicato a ogni anfratto dello scibile umano, dall’arredamento alla lista della spesa, naturalmente confusa (dev’essere quella in cui il lievito c’è e non c’è).
Il secondo, viceversa, è uno splendido saggio in cui vengono raccontati gli eventi e i personaggi che contribuirono alla nascita della Royal Society in Inghilterra: a parte l’impietoso e documentatissimo downgrade di Isaac Newton, che rimane sì un genio inarrivabile, ma che assurge anche a figlio di puttana livello top gamma, il libro ha due grandi meriti.
Il primo è dimostrare come la scienza, ora che i nerd sono diventati cool e di moda, sia in realtà un pianeta popolato da meschinità, sotterfugi e ansia di primeggiare. C’è tanta di quell’invidia e risentimento, dentro, da popolarci un sistema solare.
Il secondo, invece, risiede nel modo in cui è scritto: grande rigore filologico e documenti citati con precisione, unitamente a passi del libro che sono tutto fuorché leggeri.
Mi preme qui citare una frase, che arriva quando i due autori raccontano i primi esperimenti sulla natura di luce e colori:
“Benché la lettura degli argomenti che seguono possa non risultare sempre di facile comprensione, scorrendo le prossime pagine anche chi è meno interessato ad approfondire il tema sul piano scientifico potrà formarsi un’idea esemplare di quanto sia stato arduo, e a volte audace e fantasioso, il cammino percorso nei secoli dall’uomo per individuare i meccanismi responsabili dei fenomeni della natura”
Il che mi riporta al titolo e alla tesi, se vogliamo chiamarla così, di questo articolo: può una divulgazione scientifica alta diventare troppo generalista?
Può una divulgazione scientifica alta semplificare fino alla banalizzazione concetti che non possono essere riassunti o semplicemente intuiti?
In poche parole: può una divulgazione scientifica alta prescindere da uno studio intenso, da pagine anche difficili e contenuti che, inevitabilmente, non sono per tutti?
Il dilemma francamente mi intrippa assai.
Io sono un economista, non particolarmente brillante ma, direi, con qualche anno di studio alle spalle: ho un dottorato, ho fatto della ricerca scientifica e, anche se non riesco a pubblicare molti articoli su riviste che adottano il criterio della peer review, so in che cosa consista il famoso e spesso bistrattato metodo.
Per intenderci, è lo stesso che ci consente di qualificare l’affermazione del ministro Boccia: “Dalla scienza ci aspettiamo certezze inconfutabili” come sonora cazzata.
La pandemia ha avuto all’inizio il merito di evidenziare l’urgenza e la fame di numeri dei cittadini italiani.
Con limpidezza, però, essa ha anche mostrato un forte gap, in termini di educazione scientifica, che contribuisce a quel senso di incertezza e confusione molto comuni, di questi tempi, e che virano a manifesta sfiducia.
Le evidenze, ahimè, e i dati scoraggianti si sprecano da anni: un ritardo cronico degli studenti italiani, in confronto ai coetanei dell’aria OCSE, nei punteggi dei test PISA riferiti alle competenze scientifiche; una situazione da encefalogramma piatto per quanto concerne la lettura, come da anni le indagini dell’ISTAT mostrano; un imbarazzante ritardo in termini di educazione e alfabetizzazione finanziaria.
Ora, se l’humus è questo, quanto la divulgazione scientifica (o la presunta tale, per meglio dire), in Italia, è utile e quanto fa danno?
Faccio esempi concreti per dire che di casi positivi ce ne sono tanti: in queste settimane, mi sono affidato molto alle analisi dei dati di Enrico Rettore, ai thread di Fabio Sabatini, al fact checking di Pagella Politica o agli articoli di Luciano Capone e Phastidio.net; agli approfondimenti dell’Osservatorio Conti Pubblici; alle dirette Instagram di Dario Bressanini o al podcast Crosswords.
Potrei fare tanti altri nomi, ma il punto qui è uno: tutti questi esempi eccellenti partono da un lavoro che è fatto di precisione, fatica e studio.
Inevitabilmente, le tre cose insieme richiedono tempo, sia per chi produce e comunica l’informazione e sia per chi la riceve e deve decifrarla.
Sempre su Stati Generali, avevo scritto di un saggio, La conoscenza e i suoi nemici, che denuncia il crollo della fiducia negli esperti e descrive un sistema fluido di produzione di informazioni in cui, inevitabilmente, una certa faciloneria finisce con il prevalere .
Ho sempre creduto nella divulgazione scientifica come in uno strumento che faccia da ponte e costruisca di nuovo un legame di fiducia tra gli studiati (perdonate l’uber-semplification) e chi non ha gli strumenti per decodificare la realtà.
Ora però guardiamo all’Italia: tutti commissari tecnici, epidemiologi, economisti, statistici.
E divulgatori scientifici.
In un contesto simile, non c’è il rischio di non filtrare, tra le gemme, i ciarlatani?
In una discussione con un amico su questo tema, una sua frase di cui mi approprio credo sia definitiva: “Il punto è la cattiva divulgazione. Perché è lì che il problema si crea: quando il ciarlatano – o anche il divulgatore bravo che diventa ciarlatano perché si sovraespone – diventa l’esca degli ignoranti. Allora si crea la reazione micidiale e perversa”.
Il rischio peggiore è quello di far passare l’idea che la scienza sia facile, che l’economia sia una disciplina inutile e la statistica alla portata di chi fa l’asta del Fantacalcio.
Trovo impropria l’idea che la scienza non sia democratica: i risultati che essa produce, e avverrà anche per il COVID, hanno una ricaduta importante sulla libertà e sul benessere delle persone; e la libertà di ricerca e la collaborazione sono davvero linfa vitale per la conoscenza.
Ma non è rischioso nascondere il messaggio principale, e cioè che per sapere bisogna studiare, fare fatica, in ultima analisi non capire un sacco di cose?
Non sarebbe meglio mostrare l’onestà intellettuale di porre un limite alle proprie capacità e assumersi la responsabilità di competenze circoscritte, che includono spesso elementi tecnici ineludibili nella comunicazione e che sono state raggiunte, tra l’altro, con sacrifici onerosi?
La parola elite spaventa, quando non irrita, ma non è l’elite, in fin dei conti, l’esito delle parole profetiche dello zio Ben: “da un grande potere derivano grandi responsabilità”?
Senza, per altro, essere fighi come l’Uomo Ragno, ma passando le ore a studiare paper che non hanno affatto l’aspetto di un fumetto cool and smart.
Devi fare login per commentare
Accedi