Filosofia
Conte, i filosofi, il COVID-19 e la rovina dello scientismo
Ieri mattina il Presidente del Consiglio Conte ha voluto nobilitare il suo intervento alla Camera dei Deputati con un riferimento dotto: “La filosofia antica da Platone ad Aristotele distingueva la doxa – la credenza, l’opinione -, dall’episteme, che è la conoscenza che ha salde basi scientifiche”. Conte intendeva così giustificare le sue scelte restrittive riguardo alla riapertura progressiva del Paese mentre ancora imperversa nel mondo l’emergenza COVID-19.
Sarebbe pedante e dunque poco incisivo far notare che il riferimento è in realtà fuori luogo: né per Platone, né per Aristotele le ‘basi scientifiche’ dei virologi, epidemiologi, ecc. evocati da Conte soddisferebbero gli standard per essere considerate episteme, rientrando invece ancora interamente nella sfera della doxa. Gli scienziati si occupano del mondo empirico e transeunte delle cose sensibili, virus inclusi, sebbene cerchino di prevederne effetti e comportamenti con strumenti teorici più rigorosi e raffinati di quelli disponibili al senso comune. Per i filosofi antichi l’episteme è il sapere riferito ai principi eterni e immutabili delle cose e trae la sua superiorità e autorità rispetto alla doxa dal diverso statuto ontologico dei suoi oggetti, non dalla raffinatezza dei suoi metodi. Ma, dicevamo, questa potrebbe essere semplice pedanteria. È un altro, invece, il punto sostanziale e rivelatore. Le parole di Conte, a prescindere dalle sue effettive intenzioni e conoscenze in materia filosofica, ci presentano la scienza naturale come un’episteme platonica, dando così involontariamente voce allo scientismo diffuso che domina la cultura occidentale da almeno un paio di secoli. Beninteso, non intendo affatto a questo punto riproporre la litania post-moderna per cui la scienza non è che una pratica umane tra le tante pratiche umane, socialmente costruita ecc. Quelle sono, appunto, litanie che hanno fatto il loro tempo. Si tratta invece di rendersi conto che la miglior manifestazione di stima e di fede nella scienza è prenderla sul serio per ciò che essa è veramente, invece che per ciò che vorremmo essa fosse. Fanno sorridere (o piangere) lo scandalo e il senso di smarrimento che hanno accompagnato la scoperta che, ahinoi, i virologi la pensano diversamente su un sacco di cose. Un gustoso siparietto sul tema è stato offerto dal Presidente del Land tedesco Nordrhein-Westfalen Armin Laschet in TV qualche giorno fa (https://www.focus.de/kultur/kino_tv/focus-fernsehclub/tv-kolumne-anne-will_id_11921768.html), che in un famoso talk show ha sbottato: “ogni paio di giorni cambiano idea!”
Già. La scienza cambia idea. Lo ha fatto sul sistema solare, sulla combustione, sul modello che meglio descrive la luce, … Più un fenomeno è nuovo e ignoto, più la forza della scienza si esprime proprio nel suo cambiare spesso idea al subentrare di nuovi dati e nuove prospettive teoriche. Questo NON perché la scienza non sia affidabile, ma proprio perché lo è in sommo grado, vale a dire, proprio perché, pace Conte, NON è un’episteme platonica. Il vero scienziato ha lo sguardo fisso sul mondo sensibile, mutevole, incerto e problematico che ci circonda e cerca di comprenderlo teoricamente trattandolo come se fosse una totalità matematica. È uno sguardo molto particolare, quello dello scienziato, perché per esercitarsi efficacemente deve prescindere da una dimensione realissima del mondo che ci circonda: quella delle persone e dei valori. La scienza astrae dalla dimensione valoriale e tratta il mondo come una totalità retta da leggi matematiche nella quale la presenza di soggetti è del tutto superflua. Si tratta di un’astrazione necessaria e legittima, senza della quale del mondo che ci circonda sapremmo poco o nulla. Ma pur sempre di un’astrazione. Lo scientismo, invece, è la visione del mondo che attribuisce alla scienza superpoteri che sono del tutto alieni alla sua pratica effettiva, sognando che essa assuma da sé una funzione salvifica e riformatrice per la cultura, regalandoci certezze di contro alle bugie della politica e delle religioni. Lo scientismo è, in effetti, la religione dei non-religiosi.
Guardando indietro agli scorsi due mesi risulta evidente anche che lo scientismo è l’atteggiamento dominante con cui, come rivela il riferimento fuori luogo di Conte, i governi occidentali hanno affrontato la crisi del COVID-19. Nei virologi hanno sognato di trovare dei re filosofi platonici, forti di un sapere certo e insindacabile che da sé ci avrebbe indicato la strada per non soccombere, non solo fisicamente, ma anche politicamente, socialmente e moralmente. Ora lo possiamo dire chiaro e tondo: lo scientismo si è rivelato per quello che è: un sogno che, quando la realtà bussa alla porta, si trasforma in un incubo. Trovandoci a dover immaginare, partendo da zero, come uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo infilati con il lockdown più duro d’Europa, occorrerà anzitutto risvegliarsi dal sonno dogmatico dello scientismo e rendere agli scienziati l’onore e il rispetto che gli è dovuto, trattandoli cioè non da re filosofi platonici ma da validi collaboratori, le cui legittime divergenze corredate di curve e tabelle multicolore appartengono però al mondo dei laboratori e delle aule accademiche, non a quello della politica.
La politica, sì. Anche la politica può e deve cambiare idea quando le circostanze lo richiedono ma la politica è attività che si svolge in un’arena ontologica ben diversa da quella in cui lavorano gli scienziati. La politica si muove nel mondo dei soggetti umani, riconoscendo la realtà di persone e valori e immaginando, in base a questo riconoscimento, prospettive nuove per la società. La scienza può contribuire alla decisione politica fornendo elementi preziosi invisibili all’occhio del senso comune, ma essa, in quanto scienza, è esonerata dal contesto di realtà in cui la decisione politica si esercita proprio dai suoi presupposti ontologici e metodologici. Lo scienziato può, certo, prendere decisioni politiche se ricopre un ruolo pubblico legittimamente attribuitogli ma quando lo fa, non lo fa in quanto scienziato, perché lo scienziato in attività lavora in un mondo deliberatamente rarefatto dove valori e persone non sono e non devono essere contemplati. Non esattamente il tipo di mondo da cui possiamo trarre spunti per capire come orientarci nel mare in tempesta nel quale ci troviamo attualmente a navigare. Una volta constatato il fallimento dello scientismo non resta che ripartire da persone e valori, riproponendo sulla crisi attuale un’angolatura politica e culturale, starei per dire umanistica, nel senso più nobile di questi termini.
Visto che nel suo discorso il premier ha scomodato, almeno implicitamente, un altro filosofo sostenendo che è un “imperativo categorico decidere su basi scientifiche”, aiutiamoci con Kant a immaginare come quest’angolatura potrebbe configurarsi. Un imperativo categorico è un imperativo (“fai così!”, “agisci così!”) cui dobbiamo obbedire indipendentemente dai desideri e dalle inclinazioni che ci capita di avere in un dato momento. Quindi è palese che decidere su basi scientifiche non è un imperativo categorico: si tratta al massimo di un imperativo ipotetico cui dobbiamo obbedire se riteniamo che farlo sia un mezzo efficace in vista di un determinato fine, ad esempio uscire dall’emergenza sanitaria. Ma “decidere su basi scientifiche” non significa “far decidere gli scienziati”, bensì integrare gli input (discordanti, mutevoli, ecc.) che ci vengono dalla comunità scientifica con i fini e i principi valoriali che reggono la nostra comunità umana e politica. Come? Ad esempio, passandoli al vaglio dei veri imperativi categorici. Kant ha suggerito tre formulazioni dell’imperativo categorico (qualcuno dice quattro, ma non divaghiamo), consideriamone due.
(1) “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”
(2) “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”
Questi, secondo Kant, sono imperativi cui dobbiamo obbedire sempre e indipendentemente dai nostri desideri contingenti se vogliamo onorare pienamente la nostra natura razionale agendo in maniera autonoma e non etero-diretta dai nostri impulsi. Un esempio classico di azione in contrasto con la prima formulazione è mentire per il proprio tornaconto. Se mento per mio tornaconto, ad esempio promettendo di restituire dei soldi ma senza l’intenzione di farlo davvero, è palese che la mia azione è efficace solo in un mondo dove in genere le persone non mentono. Se la massima del mio comportamento diventasse una legge universale, la menzogna stessa perderebbe la sua efficacia, perché in un mondo dove tutti sistematicamente mentono, nessuno mi presterebbe soldi a fronte della mia promessa di restituirli. Mentendo per perseguire il proprio tornaconto, la ragione pratica entra così in contraddizione con sé stessa. Ritorniamo al presente. Immaginiamo uno scenario in cui un lockdown invocato e prolungato per proteggere il nostro sistema sanitario e la salute di una certa fascia di cittadini comporti delle conseguenze economiche talmente gravi da minare alla base il sistema sanitario a salvaguardia del quale era stato introdotto, esponendo così la salute dei suddetti cittadini a rischi ancora più gravi di quelli costituiti dal virus da cui tutto era partito. Evitare questo scenario sarebbe, seguendo Kant, una scelta conforme al vero imperativo categorico nella prima formulazione riportata. Si badi bene che non si tratta qui di un calcolo utilitaristico di costi e benefici del lockdown, che lasciamo di buon grado agli economisti, ma della consistenza intrinseca della ragione pratica, che, nello scenario evocato, negherebbe con la sua decisione le stesse identiche ragioni che aveva dapprima esibito come i suoi motivi. Non sappiamo se lo scenario in questione sia realistico, ma se lo fosse non sarebbe “su basi scientifiche” che esso andrebbe evitato, ma su basi filosofiche, politiche e valoriali. Distruggere il sistema sanitario per salvaguardare il sistema sanitario non è il tipo di massima che possa essere elevata a legge universale.
Veniamo alla seconda, più famosa formulazione. L’umanità delle persone dev’essere sempre trattata anche come un fine e mai solo come un mezzo. Anzitutto notiamo che l’umanità delle persone non coincide con la loro salute ma con la pienezza di una vita vissuta secondo ragione e animata da sentimenti ed emozioni adeguate alla ricchezza (estetica, morale, ecc.) del mondo che ci circonda. Quante volte nelle scorse settimane abbiamo sentito affermazioni assurde come “la salute viene prima di tutto”. Come?? Se davvero fosse così perché stimiamo tanto i medici e gli operatori sanitari che, infischiandosene della propria salute, hanno servito in prima linea rischiando di ammalarsi e di contagiare i propri cari? Se la salute venisse prima di tutto costoro sarebbero dei folli, non degli eroi. La salute è un mezzo in vista di un fine: il pieno esercizio della propria umanità. Perché questo sia possibile non basta non essere malati. Occorre vivere in un mondo umano dove siano garantiti un certo livello di prosperità e soprattutto alcuni diritti fondamentali. Un perseguimento cieco e spasmodico della salute sopra tutto e sopra tutti che arrivi a minare le fondamenta di un mondo del genere non è segno di rispetto dell’umanità delle persone, bensì di una sua riduzione a mezzo in vista di un fine, dove la salute diventa quel fine ultimo a cui tutto il resto può essere sacrificato. Anche questa, dunque, sarebbe una violazione dell’imperativo categorico, che si rivela ben diverso da quello prospettatoci dal nostro premier.
L’auspicio quindi, sia ben chiaro, non è ricacciare gli scienziati nei laboratori, ma tenerseli stretti, possibilmente senza lasciarli inebriare troppo al calice della celebrità, integrando però le loro divergenti prospettive con le esigenze e le istanze ben più univoche che emergono sempre più forti dal mondo umano in cui viviamo. Sopravvivere al coronavirus per morire di crisi economica, desertificazione spirituale, vuoto educativo e solitudine affettiva è una prospettiva tutt’altro che desiderabile. Questa sì, caro premier, è un’affermazione candidabile al rango di episteme platonica…
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