Filosofia
Consigli “da” amici: tra sostegno e complicità
Caro Cigno Nero,
ho una cara amica con evidenti problemi di autostima e crescita emotiva, che continua a replicare sempre le stesse situazioni in un loop infernale, per poi piangere dei mesi e non ascoltare assolutamente i consigli, che peraltro mi richiede. Quesito: fino a che punto è lecito sostenerla, e quando il sostegno si trasforma in complicità nell’autodistruzione? Ma soprattutto: meglio una brutale verità o una pietosa bugia o omissione?
Valeria
Cara Valeria,
la tua mail, seppur breve, è così densa e intensa di questioni ‒ consigli, amicizia, sostegno, verità e menzogna ‒, che varrebbe la pena avvicinarle un po’, anziché darle per scontate in un implicito sottofondo.
Dai consigli siamo circondati: quelli che ci vengono richiesti, quindi diamo, e quelli che non sappiamo dare; quelli che vorremmo dare ma non sappiamo dire e quelli che dispensiamo a destra e manca come se avessimo una missione; ci sono poi i consigli che accettiamo volentieri e quelli che fingiamo di non sentire, i consigli che non riusciamo a chiedere e quelli che arrivano senza averli cercati.
Raccontando di un allievo attanagliato da un bel dilemma, il filosofo Sartre osservava che la richiesta di un consiglio nasconde in realtà già una scelta a monte, incarnata nella persona cui decidiamo di rivolgerci. È così che interpelliamo Tizio o Caio ‒ spesso anche in funzione della situazione ‒, perché sappiamo già cosa ci diranno, e ciò che ci diranno, la maggior parte delle volte, non solo coinciderà con cosa ci aspettiamo che dicano, ma soprattutto con cosa vorremmo sentirci dire. Ci comportiamo così per avere quella conferma in più in merito a una decisione in fondo già presa, ma che vorremmo l’altro legittimasse, come a dividere con lui o lei la responsabilità. In questa postura, che tutti conosciamo perfettamente, siamo però lontani da una interrogazione radicale, da un reale desiderio di metterci in discussione.
Nondimeno sarà capitata a tutti quella volta in cui, di fronte a una situazione impegnativa, abbiamo pensato di rivolgerci ad una persona scomoda, quella che magari non sentiamo da anni eppure reputiamo perfetta per avere buon consiglio, perché sa “spiazzarci” come nessuno, e la riprova sta nel tempo lungo che impieghiamo a prendere il coraggio di digitare il suo numero di telefono. Oppure, ancora, quella volta che abbiamo deciso di rivolgerci a un professionista: quale segno più veritiero dell’investimento in denaro indica che siamo seriamente disposti a sporgerci sul crinale dei nodi che ci strozzano?
Ma se abbiamo la fortuna di un’amicizia vera, è lì che sceglieremo di andare nel momento del bisogno. Nella vera amicizia ci si scambia consigli proprio su tutto: vita privata, questioni di lavoro, problemi personali più impegnativi o dilemmi futili come l’abito da indossare per una certa occasione, perché ogni cosa, perfino il pasto da cucinare per cena, è ugualmente importante nella misura in cui fa parte dell’unica e preziosissima vita che abbiamo ‒ e questo, ancor più di Seneca, me lo ha insegnato un’amica in un momento di estrema pesantezza esistenziale ‒.
I consigli dell’amico sono speciali perché, seppur attraversati dal sentimento che ci lega, non sono falsati per questo. Tutt’altro: dell’amico ci si fida come di sé stessi, scriveva Seneca, perché si assumerà il rischio di dirci ciò che crede vero, seppur difficile, quando da soli non riusciamo a trovare la forza di farlo. Allora lui lo farà per noi, certo che la rete dell’affetto reciproco non ci lascerà rompere l’osso del collo.
La tua mail, però, si fa controversa quando scrivi di una “cara amica” e, allo stesso tempo, ti domandi se sia il caso di “mentire” ancora. Allora l’interrogativo potrebbe essere un altro rispetto a quello che poni: non si tratta tanto di un aut-aut tra verità e bugia, perché la verità, nel senso oggettivo in cui la intendi, non ha a che vedere con l’amicizia. Ad essere in gioco è piuttosto la sincerità, che è soggettiva, e che l’amicizia richiede perché sia amicizia vera. Il consiglio dato a un’amica è valido quando è vero nel senso della sincerità, cioè quando siamo veri noi, e non tanto quando ne segue un comportamento, come se si trattasse di un imperativo, una direttiva o una prescrizione medica. Il consiglio ha valore quando tocca, smuove e scuote. Il consiglio ha valore quando fa pensare ‒ e raramente una bugia sa farci pensare davvero ‒.
Potrebbe essere che la nostra amica continui a non ascoltarci perché non sente sincerità? Che sia questo il motivo per cui non viene minimamente sfiorata dalle nostre parole, e perciò insiste a interpellarci nella speranza che l’amica faccia l’amica, smuovendo il “loop infernale” anziché esserne complice?
Toccare, smuovere e scuotere sembrano in contraddizione col sostegno intorno a cui ti interroghi, ma è un contrasto apparente. Sostenere vuol dire “tenere su”, “sorreggere”, esattamente come i pilastri tengono su le travi, e insieme fanno un ponte: perché assolvano al loro dovere, affinché il ponte sia resistente e non crolli, è necessario che quei pilastri non siano fatti di cemento posticcio, magari mischiato a sabbia di mare, ma di vero cemento. Allo stesso modo, quando “sosteniamo” un’idea o un pensiero, si tratta sempre di qualcosa di vero, nel senso che sosteniamo sempre ciò in cui crediamo. Una bugia, infatti, tuttalpiù la “diciamo”, non la “sosteniamo”, perché in quel caso non stiamo sostenendo niente e nessuno, nemmeno noi stessi.
Che sostegno è quello che si dà a un’amica quando ci comportiamo come i pilastri contraffatti di un ponte? Al primo terremoto il ponte potrebbe cadere giù, scoprendoci complici dell’autodistruzione. Magari noi resteremo in piedi, ma come obelischi tracotanti e solitari, e non certo come pilastri, che a quel punto neppure potrebbero dirsi tali non avendo più nulla da sostenere.
Il paragone architettonico non serve solo a dire che, se non siamo sinceri con l’amico, è la nostra amicizia a perdere di verità. Serve anche a noi stessi e all’amica, a farci comprendere che gli urti non sempre rompono, non sempre distruggono. Le costruzioni giapponesi, nel loro essere edificate per resistere ai terremoti, non reagiscono intestardendosi a rimanere fisse e radicalmente piazzate. Resistono perché sanno rischiare: se qualcosa sopraggiunge a turbare l’equilibrio, oscillano, sussultano, saltellano, perché muovere, scuotere, traballare, è paradossalmente l’unico modo per restare in piedi.
Se consiglio verrebbe da “con-sùlere”, come sedere insieme , è molto bella una etimologia, poi giudicata improbabile, che la fa risalire a “con-silère”, cioè stare insieme in silenzio. In entrambi i significati il consiglio si sottrae dall’urgenza cui di fatto lo associamo, dall’ansia da prestazione di chi lo dà e dallo stato di passività di chi lo riceve, lasciando emergere invece lo spazio e il tempo di una pausa, che però non è sinonimo di stasi perché smuove il pensiero e, soprattutto, non è mai solitaria. Questa nuova prospettiva riuscirebbe a scuotere il “loop infernale” in cui siete finite?
Irene Merlini
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