Filosofia

(In)divisi tra ragione e sentimento

9 Luglio 2021

Caro Cigno Nero,

Ogni tanto si riaffaccia la domanda: ragione e sentimento sono in conflitto? E chi prevale? A volte ci sembra che vinca la ragione, specialmente quando abbiamo ricevuto un torto e pensiamo di dover chiudere una relazione. In altri casi siamo combattuti tra le ragioni del cuore e quelle del cervello, tendendo piuttosto a “comprendere” e a perdonare, forse perché temiamo la sofferenza e la solitudine.
La stella polare sembra indicarci la rotta dell’armonia tra cuore e cervello, ma l’impresa è davvero titanica. Per fortuna, ancora una volta, arriva in nostro aiuto la scienza, che ci dice che abbiamo neuroni non solo nella testa, ma anche nel cuore, nell’intestino, nel fegato: insomma in tutto il nostro corpo.  Allora che si fa?

Ines

 

Cara Ines,

Esiste una patologia del cuore nota come “sindrome di Tako-Tsubo”, detta anche “sindrome del cuore infranto”, che ha all’apparenza tutti i segni tipici di un infarto ma non porta all’infarto. È causata invece da un forte stress emotivo o da una grande e prolungata sofferenza, a dimostrazione di quanto corpo e mente siano reciprocamente influenti.

Ma nonostante il dualismo cartesiano sia stato ampiamente superato a favore di una concezione dell’essere umano come unità di mente e corpo, continuiamo a percepirci scissi tra ragione e sentimento, come se esistessero in noi due spazi nettamente separati, uno per quello che dovremmo sapere, diciamo più in generale con la testa (perché il cervello nel dualismo cartesiano coincide col corpo), e l’altro per quello che sentiamo con il cuore. Ci definiamo razionali oppure sentimentali, scegliamo di farci guidare dalla logica oppure ci lasciamo trasportare dalle emozioni; analizziamo, vivisezioniamo, passiamo al setaccio ogni parola e gesto, oppure ci affidiamo a ciò che sentiamo in quel dato momento “senza pensarci troppo”. Siamo, in altre parole, disgiunti, oppositivi. Arriva però il momento in cui la pura razionalità o il solo sentimento sembrano non bastare perché lasciano in noi dubbi e incertezze, e così torniamo sulle decisioni prese, sulle nostre convinzioni, su ciò che abbiamo fatto o detto, percorrendo un tragitto che ci (ri)porta al cuore se abbiamo usato la testa e alla testa se ci siamo fidati del cuore.

Cervello e cuore, che tu indichi come sinonimi di ragione e sentimento e attraverso cui oggi tendiamo a replicare un certo dualismo, sono però, a ben guardare, due parti anatomiche e allo stesso tempo, nell’immaginario comune, sede rispettivamente del pensiero razionale da un lato, e di emozioni e sentimenti dall’altro.

Innanzitutto bisogna quindi fare un po’ di chiarezza, anche terminologica, perché è già a partire dai modi di dire che ci rappresentiamo geograficamente divisi: se la ragione ci vuole con la testa sulle spalle, ci invita a non perderla o ci chiede di usare il cervello, il sentimento e l’emozione possono spezzarci il cuore, farcelo arrivare in gola o sentire come gravato da un peso. Siamo soliti poi riferirci alla ragione, e quindi ai processi di pensiero razionali, analitici e logici usando i termini testa, cervello e mente come sinonimi; e lo stesso facciamo con emozione e sentimento cui attribuiamo lo stesso carattere imprevedibile, incontrollato e quindi irrazionale. Ma grazie alle neuroscienze oggi sappiamo che la mente emerge dal corpo grazie alla capacità del cervello di costruire mappe somatosensoriali, ed è questo che ci rende non scomponibili. Se il corpo è fondamentale per la mente – non quel corpo che abbiamo, ma quel corpo che siamo, ci direbbe Merleau-Ponty – allora nella mente non c’è posto solo per la ragione ma anche per i sentimenti, che insieme alle emozioni, di cui si nutrono e a cui possono dare vita in un rimando continuo, non devono più essere visti come “intrusi” nel dominio di una ragione che non è, come supponiamo, “pura”.

Questo significa che non esiste solo un pensiero razionale, che non conosciamo solo con la ragione, ma anche con il sentimento. Col sentimento però abbiamo la sensazione di essere in balìa di qualcosa che, per quanto ci appartiene, resta confinato nel campo dell’imprevedibilità, può mutare e ingannarci. È vero perciò che nel nostro viverci scissi continuiamo a preferire la ragione, e questo succede perché quello che vogliamo è “avere ragione”. Il sentimento lo viviamo come intruso quando si insinua nella logica analitica del pensiero e destabilizza il nostro impianto razionale. Cartesianamente, pensiamo che la ragione, a differenza di ciò che affidiamo al sentire, ci metta al riparo dal rischio di perderci nel labirinto dell’irrazionalità. La ragione non ci fa sentire “affetti”, assoggettati a qualcosa che sfugge al nostro controllo, è la nostra rete di sicurezza per arrivare alla verità. E se anche qualche volta lasciamo che sia il sentimento a guidarci, non smettiamo di cercare appiglio nella razionalità per non perdere il contatto con la realtà, quel contatto che, crediamo, solo la ragione può darci, la ragione che ci tiene con i piedi per terra e la testa sulle spalle.

Pascal aveva ben chiara questa nostra complessità, il nostro essere sempre in bilico tra “le ragioni del cuore e quelle del cervello”, come scrivi. Ma per Pascal è il sentimento – che ha il carattere dell’intuizione – la facoltà conoscitiva più alta, più della capacità razionale e analitica tipica dell’ esprit de géométrie e di quelli che lui chiama “geometri”, tanto impegnati nella dimostrazione e nella ricerca dei principi primi delle cose, da perdersi quel colpo d’occhio che riesce a cogliere l’essenziale, ciò che più conta nella vita, che appartiene all’ esprit de fìnesse ed è prerogativa degli “spiriti fini”. Quando nei Pensieri scrive: “le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point”, con quel doppio significato di raison come “motivazioni” e “facoltà conoscitiva”, ci fa capire, col cuore, quanto inutile sia in certi casi, in certe situazioni della vita, “avere ragione”.

Nell’esperienza sentimentale non è una sola parte di noi ad essere coinvolta. Non è solo il nostro cuore, eppure ci localizziamo lì, perché sentiamo che è il cuore quella parte di noi affetta, colpita. Quello che non consideriamo è che noi non coincidiamo mai né con il nostro cervello né con il nostro cuore. Siamo, invece, parte dell’uno e dell’altro, sospesi sempre e di nuovo, in attesa di conoscerci. In questo intreccio che siamo, quel tipo di pensieri che sono i sentimenti ci fanno aderire alla realtà più di quanto immaginiamo perché ci indirizzano, orientano il nostro interesse a partire dalle emozioni che ci smuovono (e non solo etimologicamente), e così facendo ci permettono di viverci, e ancor più di sentirci vivere tra il nostro paesaggio interiore e ciò che siamo quando espatriamo verso il mondo della vita. Ed è proprio in quel sentirci vivere che sta l’autoconsapevolezza.

Siamo convinti che la nostra fragilità appartenga al cuore, perché è il cuore che ci si spezza, che abbiamo avuto tante volte infranto, e invece ci scopriamo fragili volendo essere in tutto e per tutto geometri, proprio per paura di sbagliare o soffrire. Ma noi non siamo riassumibili attraverso la semplificazione e la separazione tra un dentro e un fuori, perché siamo ulteriorità, cioè mai definiti e definibili né arginabili.

Sentire significa farsi toccare dagli eventi, un tocco che lascia traccia in noi e diventa bagaglio, ma senza la ragione tutto questo non sarebbe possibile. La ragione organizza il sentire, lo struttura, lo arricchisce di nuovi significati. Così ragione e sentimento, insieme, ci insegnano, ad esempio, la differenza tra amare ed essere innamorati, tra un sentire consapevole della sua direzione e delle sue intenzioni verso un oggetto che diventa soggetto, e una generica e indefinita condizione in cui ci si ritrova.

Quello a cui aspiriamo per risolvere il conflitto è che le nostre scelte, azioni, decisioni, siano il risultato di una perfetta combinazione di cuore e cervello, uno scenario in cui con la ragione e col sentimento possiamo dirci che era la cosa migliore da fare e che non ce ne pentiremo, che si tratti di perdonare o di mettere fine ad una relazione. Quello che potremmo provare a fare, invece, è smettere di pensare che il tenerci con i piedi per terra della ragione ci metta al riparo dal rischio di cadere, e dare la possibilità al sentimento di aiutarci a non restare troppo ancorati a noi stessi.

 

 

Il cuore è per Barthes l’organo del desiderio che allo stesso tempo vuole essere oggetto di dono. Un dono che può essere rifiutato, e allora tutto ciò che sembra restarci è quel cuore, diventato greve. Il cervello non è oggetto di dono ma di condivisione, come avviene con lo scambio di pensieri. Cosa succederebbe se provassimo a condividere il cuore e donare i pensieri?

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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