Filosofia
CITTADINI D’ABRUZZO
“Di Londra e di Parigi, immerse nelle delizie? Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”.
Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona
Con un gruppo di cari amici, per le feste natalizie, sono stato in visita a L’Aquila, meta insolita, soprattutto di questi tempi. E la prima idea che mi è (ri)passata per la mente è stata che le catastrofi sembrano tutte uguali. Così suggeriva anche W. Benjamin, in un programma radiofonico nel 1931 (Berliner Rundfunk), in una sua rilettura del terremoto di Lisbona del 1755, alle soglie della catastrofe umana della dittatura nazionalsocialista: “A nessuno piacerebbe sentir raccontare solamente di case che crollano l’una dopo l’altra, del terrore per l’incendio che si propaga o della paura per l’acqua, dell’oscurità, dei saccheggi, dei lamenti dei feriti e di chi cerca i propri cari. E, d’altro canto, sono proprio queste cose che ricompaiono – pressoché identiche – in qualsiasi catastrofe naturale” (W. Benjamin).
Nel tempo si fatica a contare le innumerevoli catastrofi naturali (e insieme umane) che hanno segnato la nostre vicende umane. Ma una riflessione più accurata, a distanza di quasi cinque anni dal sisma aquilano ce la può offrire il riverbero del terremoto di Lisbona che, da parte sua, ha segnato una svolta nel pensiero moderno (cfr. A. Tagliapietra, Sulla catastrofe, Mondadori), non tanto per l’eccezionalità o la violenza di esso (in confronto a quello che è accaduto ad Haiti nel 2010 sarebbe un non nulla), bensì per la reazione intellettuale innescatasi in tutta Europa. È stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale in cui si sono impegnate le menti più notevoli del tempo, fra cui l’allora trentenne Kant, insieme a Rousseau e Voltaire. Da allora in poi, la responsabilità delle nostre sofferenze fu cercata esclusivamente in noi o, caso mai, in un ambiente naturale a cui noi siamo indifferenti (il caso più eclatante nelle recenti alluvioni di Genova).
Cosa mi ha spinto allora a scrivere de L’Aquila? La prima motivazione riguarda dunque la valutazione della reazione al terremoto in un panorama completamente moderno-illuministico: sin dall’inizio si sono ricercate le cause naturali e l’impreparazione umana-tecnica ad un disastro simile, nonché delle risa di chi già pensava ai guadagni economici da esso derivanti [sic!]. Si poteva prevedere? Le strutture degli edifici erano in regola circa le norme antisismiche?
La seconda, invece, è stata una riflessione legata alla reazione intellettuale – totalmente assente – delle persone. Una volta obliato Dio dall’elaborazione del lutto – in generale e nel caso specifico della catastrofe (l’evocazione del terribile castigo del Dio punitore non poteva eludere troppo a lungo quella domanda di giustizia individuale che l’indiscriminata distruttività della catastrofe naturale non era assolutamente in grado di soddisfare) – non è rimasta neanche la fede illuministica e ottimistica che ci tramandiamo da qualche secolo a questa parte. Tutto si è ripetuto uguale, come in un qualunque altro sisma.
Ogni singolo aquilano si è stato abbandonato a se stesso nella sua troppo personale elaborazione della catastrofe. Questo è stato il sintomo più evidente dei postumi del terremoto in Abruzzo; questa, a mio avviso è stata la novità del contemporaneo rispetto alla catastrofe, qualcosa di diverso emerso da altri casi troppo eclatanti, che bucavano l’immaginazione, come quello dell’11 Settembre, soffocato da parole e immagini (e che pur aveva suscitato una nobile reazione di filosofi e intellettuali). Il caso aquilano, così nascosto agli occhi dei più, nasconde l’ennesima triste sconfitta dell’uomo che si basta a se stesso. A L’Aquila è mancata l’elaborazione comunitaria del lutto. A tratti ne è risultato un panorama a prima vista totalmente disgregato, contradditorio, punteggiato da circostanze assurde, e tuttavia si è palesato il tema unitario che tiene che tiene insieme elementi così eterogenei, ossia: la richiesta di protezione psicologica di fronte al negativo della vita quotidiana, e alla angustia di comportamenti efficaci realisticamente orientati, ciò che, per l’uomo contemporaneo, non può più(?) offrire né Dio né la vecchia fede illuministica.
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