Filosofia
Bolsonaro e la proscrizione della filosofia
Bolsonaro, attuale presidente ultradestrorso del Brasile, sta varando, attraverso un drastico taglio dei fondi statali, una serie di provvedimenti volti alla marginalizzazione degli studi umanistici all’interno degli atenei.
Lo scopo dichiarato è “la difesa del contribuente”, da favorire con l’estinzione di tutte quelle discipline (filosofia e sociologia in primis) che non vanno a rimpolpare il prodotto interno lordo, rivelandosi, dunque, inutili sul piano della prosperità sociale.
La logica neanche tanto implicita è: che ci si trastullino i benestanti a loro spese; essendo gli unici a potersi permettere il lusso del pensiero critico, mollaccione, avulso dalla performance economica. Il lusso dell’investimento a fondo perduto.
Una lezione pregevolissima per tutti i populisti del pianeta che studiano da leader. Gli autoritarismi in pigiama delle nostre parti, ancora sotto le coperte per senso del pudore altrui e afflitti da un eurobullismo infruttuoso, sono poca roba in confronto. Ma stanno prendendo appunti.
Del resto, è ben visibile il fiuto per il secolo del presidente brasiliano. Egli sa assecondare come pochi suoi colleghi quelle pulsioni retrotopiche tanto care al “popolo”. Senza le quali lo stesso “popolo” – concetto sociologicamente farraginoso (ah, maledetta sociologia!) – faticherebbe parecchio a sentirsi “popolo”. Anzi, correrebbe il rischio di scoprirsi come prodotto ideologico inappuntabile, come risorsa retorica per eccellenza, in un’ottica di conservazione e inasprimento dei rapporti di forza tra chi ha e chi non ha.
Da qui, per il bene del “popolo” (che nel sapersi popolo, nel sapersi cerchio accerchiato dalla corruzione morale risolve d’incanto ogni suo problema), l’obbligatorietà continuativa dell’azione penosa.
Ad esempio, le crociate contro i diritti delle persone LGBT (“Preferirei vedere uno dei miei figli morire in un incidente che sapere che è un omosessuale”) e l’insistenza sul tema della sicurezza, con l’auspicato ripristino delle leggi sull’ordine pubblico risalenti alla dittatura militare; la deforestazione dell’Amazzonia per il rilancio del settore agricolo e le politiche antiabortiste. Eccetera.
Un unico, compattissimo, piano sequenza. A tempo indeterminato. Che restituisca il senso dello spettacolo retrogrado, dell’idillio securitario, privo di buchi di sceneggiatura.
Al centro della trama, tanto per cambiare, la stramaledetta sicurezza. Ormai, la forma di intrattenimento per antonomasia, quella che ha permesso alla diffusissima insicurezza, essenzialmente socio-economica, di distrarsi da sé, di dimenticarsi, di rimuoversi, di raccontarsi come danno collaterale non smaltibile di un sistema perfetto, eterno, dalla potenza mitologica.
Un’insicurezza di risulta, priva di traiettoria storica, dalla vocazione al riscatto affogata nel conformismo e nell’odio verso chi è ancora più insicuro, da seppellire, da lasciare senza voce.
Un’enorme zavorra per l’economia di mercato, non cancellabile come i diritti dei lavoratori e non arginabile come il pensiero divergente. Quindi, da inquadrare, di necessità, in una narrazione comoda, istintiva, martellante, monopolizzante, di largo accesso. Ecco perché ciò che mira a interrogare la realtà, a interrogarne le crepe, a interpretarla prescindendo dal principio della competitività, merita il bando.
Tuttavia, l’autoritarismo tropicale, a viso aperto, di Bolsonaro, appare, su questo tema, persino più leggibile, più “onesto” rispetto ai tanti corrispettivi moderati.
Basti pensi al Giappone e alle sue recenti politiche sugli studi umanistici. Affini nella sostanza alle linee guida brasiliane, ma formalmente “inattaccabili”, perché figlie di un progressismo così maturo da potersi concentrare unicamente e spavaldamente sulla crescita economica, a prescindere da quanti ne traggano giovamento.
Un racconto a tal punto convincente da far latitare i contestatori. Destinati, sulla lunga, al disarmo perché deprivati, da pianificazione e non per caso, proprio di quegli strumenti in grado di fare immaginare scenari socio-politici alternativi.
Sulla stessa scia le “evolute” democrazie occidentali. Ostaggio di disuguaglianze senza precedenti, di una finanza cannibale e di classi dirigenti dall’ignoranza sconcertante. Eppure, col mito inossidabile dell’homo oeconomicus. Che mal sopporta ciò in cui non può specchiarsi.
Tutto per il bene del “popolo”, qualunque cosa esso sia.
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