Filosofia

Bauman e la ricerca della dimensione umana

2 Gennaio 2019

A chi importa se l’uomo è degno del suo nome, se fa scelte morali, se nella vita lascia spazio ai sentimenti buoni? In che cosa risiede il fondamento dell’etica? Può essere lo stoico “vivi secondo natura”? Si situa in un orizzonte metafisico come le religioni rivelate insegnano? Oppure sta nella Legge, come gli Illuministi hanno spiegato?

Zygmunt Bauman, nel suo saggio Di nuovo soli , nota che viviamo in un’epoca di netta cesura tra ragione ed emozione e che il mondo oggi sembra aver deciso di soffocare, eradicare le passioni. Ciò che conta è l’osservanza di codici etici che prescrivono l’obbedienza a regole precise di cui non si chiede affatto l’intima condivisione. Funzionano così la burocrazia e il mondo degli affari: capacità esecutive e razionalità procedurale devono assicurare che il sistema funzioni e forze centrifughe, erratiche, imprevedibili come le emozioni e i sentimenti non possono rischiare di far inceppare la macchina. I soli sentimenti ammessi sono la lealtà al sistema (società, azienda) e – nota Bauman – disponibilità a svolgere la propria mansione a prescindere dal contenuto del lavoro assegnato, come tanti piccoli Eichmann. Nel mondo degli affari il solo principio guida è la razionalità strumentale: i mezzi devono essere sfruttati in modo tale da ottenere il miglior risultato possibile: se la conseguenza è, per esempio, il danno ambientale, è un dato secondario; se “razionalizzare”  significa il più delle volte licenziare persone diventate un “esubero”, dimenticando i loro meriti e la gratitudine per il lavoro compiuto, fa parte del gioco. Bauman conclude che la burocrazia soffoca gli impulsi morali e gli affari si limitano a metterli da parte: perché “funzioni”, il mondo degli affari ha bisogno di paraocchi che impediscano in eterno di vedere il volto umano.

Il punto è questo: “funzionare”. Noi cerchiamo ormai solo la perfezione, che è figlia del logos, aborriamo sbavature umane, temiamo l’imperfezione. Le città contemporanee sono ipertecnologiche, progettate dai migliori urbanisti, hanno abbattuto ogni possibilità d’inciampo, sono smart. Però sono brutte. Nella loro serialità (edifici uguali, aeroporti e stazioni uguali, ipermercati clonati) non hanno niente di umano: “funzionano”, sono razionali, perfette, ma brutte. Nessuna di loro è all’altezza di una sola piazza medievale di un borgo del Centro Italia.

Lo stesso discorso vale per i luoghi di lavoro: presentano delle chiarissime Carte dei Servizi, gli utenti sono consumatori o clienti da soddisfare, non hanno il rango di persone, e i dipendenti sono anelli di una catena: ognuno è responsabile del proprio comparto, settore, compito, in una frantumazione spersonalizzante che abbatte ogni relazione umana. Certo, il sistema “funziona”, è efficiente. Ma può dirsi umano?

Il mondo può anche “funzionare”. Ma non vive senza bellezza. Nella sua riflessione sull’equivalenza tra etica ed estetica, recentemente Vito Mancuso ha fatto riferimento al discorso di Trofimovič nei Demoni di Dostoevskij. Trofimovič  sostiene che è accaduta soltanto una cosa: uno spostamento di scopi, la sostituzione di una bellezza con un’altra! Tutto il malinteso non è che nel dubbio se sia più bello Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio.

Ecco, oggi l’uomo ha fatto le sue scelte: ha preferito un paio di stivali, il petrolio. Semplice. Ha scelto un’umanità meno bella.

Certo, se il mondo in cui viviamo non ci piace e sentiamo intimamente che calpesta la nostra coscienza, resta la disobbedienza, con i rischi che comporta. Essere responsabili non significa seguire le regole: spesso può richiederci di ignorarle o di agire in modi che le regole non consentono, conclude Bauman.

Ma per essere disobbedienti bisogna aver ben chiaro, nella mente e nel cuore, un ideale bello di umanità, migliore di quello esistente.

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