Filosofia

Attacchi personali: note sul concetto di escalazione

8 Gennaio 2015

Le polemiche a distanza che hanno coinvolto nell’anno da poco passato Putin e il premio nobel per la pace Barack Obama, il governo israeliano e quelli palestinesi (Gaza e Cisgiordania), ma anche, su un altro piano, quello economico e dei rapporti di potere all’interno dell’Unione Europea, il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi e il suo oppositore Jens Weidmann, rappresentante della banca centrale tedesca (la Bundesbank), per arrivare in fine all’estremo dei massacri di vignettisti, ci sono parse un po’ problematiche, in quanto spesso si è tentato di attaccare personalmente i contendenti, piuttosto che i loro argomenti e le loro strategie e decisioni (si dava anzi per scontato che queste ultime fossero sbagliate, perché provenivano da certe persone. Questo intervento concerne il legame tra politica e argomenti ad personam. Partirà però da un conflitto passato, benché ancora irrisolto, quello che ha riguardato la ex Jugoslavia.

 Come riferiscono Arielli & Scotto (1999: 13-28), il 26 aprile 1988, mentre l’economista croato Branko Horvat, di origine ebraica, che è scampato per poco alla deportazione al tempo del regime fascista in Croazia, sta per tenere una conferenza (al di fuori degli schemi ideologici) sulla questione del Kosovo, viene insultato da un gruppetto di persone: «Ustascia, fascista! Amico degli albanesi!». Siamo giunti a un argomento ad personam (doppiamente fuori luogo) per denigrare delle prese di posizione. La contestazione a Horvat si inserisce in un processo di acutizzazione del conflitto iniziato con l’ascesa al potere di Slobodan Milosevic nel 1986-87. Negli anni successivi il governo federale yugoslavo abolisce l’autonomia del Kosovo e proclama lo stato di emergenza, mentre il movimento nazionale albanese risponde con il boicottaggio delle istituzioni e con la costruzione di uno stato parallelo, che mantiene il conflitto in una fase di stallo per un decennio. La guerra, la quarta in sette anni, in Jugoslavia, scoppia nel 1998.

 Dall’argomento ad hominem (che è una fallacia di rilevanza, cioè, non c’entra niente con ciò di cui si discute) si può passare agevolmente alla petitio principii (fallacia di presunzione, cioè, si dà per scontato che le cose stiano come si dice e non ci si preoccupa né di provarlo né di metterlo in discussione): attraverso questo spostamento di accento l’argomento basato sugli attacchi personali può presentare importanti risvolti politici, rappresentati dal concetto di escalazione.

 L’escalazione è fatta di soglie, il che la rende simile a un processo discontinuo, con dei salti. Ogni soglia rappresenta un margine di sicurezza reciproco (non plus ultra); un limite che, una volta oltrepassato, non permette quasi mai il percorso a ritroso, un vero e proprio “punto di non ritorno” (Arielli & Scotto 1999: 15). Le possibilità si restringono progressivamente, fino a che la conclusione pare necessaria, dal momento che le opzioni alternative sono scomparse. Ma la scelta di oltrepassare la soglia è frutto di una decisione intenzionale, tanto che il “non ci sono più alternative” è l’unico argomento rimasto (lungi dall’essere una conclusione vera, visto che si rifiuta qualsivoglia alternativa).

 Inoltre, l’escalazione può essere vista come uno strumento strategico, controllato, ma può anche essere l’effetto di un processo non voluto, in cui l’intensità e la violenza di un conflitto crescono fino a diventare incontrollabili, automatiche, irreversibili. Questo spesso avviene con la minaccia di un intervento militare, che si crede di poter controllare, attivare e disattivare a piacimento. Se si tengono in considerazione gli elementi di reputazione, e l’impegno preso, questa opinione erronea è stata alla base dell’impegno della Nato in Jugoslavia a partire dalla metà del 1998.

 Infine, l’escalazione ha come fase di arrivo la guerra. Nel caso della guerra fredda nessuno voleva aumentare il grado di rischio di un conflitto, ma ognuno era portato a farlo perché anche l’altro lo faceva; nel contesto del conflitto jugoslavo, entrambe le fazioni, quella serba e quella albanese, si sono trovate coinvolte in una spirale del sospetto reciproco. Se nell’ambito della guerra fredda la forza militare si è trasformata in forza psicologica, in deterrente che ha permesso di utilizzare la guerra per indurre un attore a fare (o non fare) qualcosa, in Jugoslavia l’obiettivo è stato quello della distruzione dell’avversario.

 L’intersezione di due tipi di conflitto è stata alla base del conflitto jugoslavo, in cui la tensione alla polarizzazione ha fatto sì che non ci fossero più due contendenti con un giudice super partes (o una forza di polizia al servizio di una parte terza, cioè la Nato al servizio dell’Onu), bensì solo due parti.

 È in questa situazione di polarizzazione che è possibile vedere l’effetto dell’argomento ad personam nelle percezioni: il pregiudizio, il sospetto, la paranoia, la polarizzazione che si autoalimenta. In Serbia si è passati dalla vittimizzazione dei serbi alla esternalizzazione dei problemi, alla stigmatizzazione dell’avversario (demonizzazione) e quindi all’attribuzione di una intenzionalità negativa all’altro: le violenze sessuali, nella norma statistica, vennero per esempio viste come un complotto degli albanesi contro i serbi.

 Una volta giunti alla generalizzazione la definizione del nemico corrisponde alla differenza dall’essere amico: “loro” sono visti a partire dalla differenza (costruita) rispetto a “noi”. La conseguenza nefasta è l’emarginazione delle posizioni moderate e il sostegno agli estremismi.

 L’immagine del nemico è una soglia mentale da cui è estremamente difficile tornare indietro: l’altro scompare nella sua realtà per assumere un’immagine più netta, non più separata dal problema, dal conflitto; si identifica con il problema stesso, che si ritiene possa scomparire solo con la scomparsa dell’altro. Ma così le sue azioni finiscono per confermare sempre e comunque le proprie aspettative: 1. se le confermano, perché così deve essere (fa parte della “natura” o “essenza”); 2. se non le confermano, perché l’altro cerca di ingannarci. L’affermazione è così sempre vera, perché così la si interpreta, e l’altro non può che essere il nemico assoluto.

 

È evidente quali conseguenze abbia un tale modo di argomentare, dove l’argomento ad personam viene immunizzato nei confronti della realtà e trasformato in premessa assolutamente certa di un procedimento rigorosamente deduttivo che porta alla eliminazione dell’avversario, magari armato solo di una matita.

 

 Riferimenti

 Emanuele Arielli & Giovanni Scotto, La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation, Editori Riuniti, Roma 1999

 Chiara Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, Roma-Bari 2011.

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