Filosofia
Argomenti da lasciar passare. Sulla risposta alla lettera contro Agamben
Su Le parole e le cose Luca Illetterati ha risposto alla lettera dei filosofi contro le note posizioni di Agamben. Illetterati ha probabilmente ragione nel suggerire che c’è stato un errore di percezione di una parte della comunità filosofica italiana: non sentendosi rappresentata, è scattata contro Agamben, come se l’audizione di Agamben in Senato fosse una sorta di consultazione di una categoria. Per fortuna i filosofi non sono una categoria professionale in senso proprio, e quindi Agamben non parla per i filosofi e non è l’unica voce filosofica; purtroppo ciò vuol dire che il pubblico e la politica hanno individuato in Agamben un’istanza da dover ascoltare. Su un altro piano, ciò che mi preme sottolineare in merito alla risposta di Illetterati alla lettera dei filosofi contro Agamben è che il suo intervento rimane vittima a sua volta di una serie di storture ideologiche e prospettiche, analoghe a quelle che vorrebbe denunciare.
Illetterati esordisce ricordando la famosa massima di Hegel secondo cui il vizio peggiore dei filosofi è di voler insegnare al mondo come dovrebbe essere, “come se il mondo fosse ogni giorno lì ad aspettare che arrivasse il pensatore di turno a dirgli che vestito indossare al sorgere del sole”. È noto che Hegel aveva in mente una posizione ben specifica di filosofia da sbeffeggiare. Ma se il giudizio hegeliano può essere esteso come fa Illetterati, allora viene la tentazione di usarlo più in generale. E in tal senso si può notare che questo argomento può essere rivolto contro Illetterati stesso, novello censore di valutazioni distorte da parte di colleghi noti e meno noti. Ovviamente rivolgere l’incipit hegeliano contro Illetterati stesso sarebbe un pessimo argomento. Ma il tono piccato della replica di Illetterati non è una mera svista dell’incipit e lo scritto continua nell’additare “i filosofi che sembrano certi di abitare dalla parte giusta del mondo e della storia”.
La questione non è applicare a Illetterati stesso l’accusa hegeliana, bensì si tratta di rigettare la battuta hegeliana, per come qui viene proposta, come un’accusa valida. Infatti, è normale che i filosofi (e ogni persona che voglia partecipare al dibattito pubblico) si sveglino alla mattina e cerchino di dire al mondo come dovrebbe essere. In un certo senso è ciò che fa Illetterati stesso. Ma non ogni modo di farlo è valido o apprezzabile. La differenza consiste nel modo in cui uno lo fa, se utilizzando buoni o cattivi argomenti, o se prendendosi la responsabilità di farlo alla luce del sole o facendo finta di non farlo pur facendolo lo stesso. In tal senso meglio qualcuno che si erge a giudice del mondo in maniera chiara, portando argomenti ed esponendosi così alla replica sul punto, piuttosto che coloro che, adottando la posa facile del disincanto iperrealista, giudicano i giudici del mondo da un punto di vista presuntamente interno alla natura delle cose.
A parte le questioni di posa intellettuale, l’altro punto discutibile della risposta di Illetterati consiste nella sua presunta confutazione dell’argomento secondo cui il green pass non sarebbe una discriminazione. Difendendo Agamben, senza evocare le sue iperboli da Terzo Reich, Illetterati sostiene che il green pass si configura come “una norma discriminatoria della quale dobbiamo farci carico, è una forma di ‘ingiustizia’ della quale una società degna di questo nome in certi momenti è chiamata a farsi problematicamente carico”. Qui Illetterati commette, inconsciamente o consapevolmente, un grave travisamento intellettuale che è doveroso segnalare. La sua critica sembra apparentemente corretta perché vorrebbe essere un discorso meta-critico, quasi parresiasta, nel dire lo stato di cose al di là di ciò che impone il dispositivo di verità-potere operato dal connubio scienza ufficiale-potere disciplinare. Ma sembra soltanto un discorso disvelatore perché in realtà si basa su un banalissimo equivoco terminologico e concettuale. Illetterati, infatti, gioca sull’ambiguità descrittiva e normativa del termine “discriminare”. In un senso generico ogni scelta, ogni criterio di allocazione di risorse, ogni standard, ogni categoria è “discriminatoria” nella misura in cui stabilisce cosa ricade entro un certo standard e cosa non vi ricade. In questo senso sarebbe discriminatoria qualsiasi decisione legislativa e politica: dallo stabilire la soglia per il raggiungimento della maggiore età al numero di anni dell’educazione obbligatoria. Queste e molte altre sono scelte di cui la società è responsabile, senza alcuno scandalo, perché sono decisioni che sono basate su motivazioni di vario tipo (tecniche, scientifiche, politiche, sociali, etc.). Ne contestiamo talvolta il contenuto, ad esempio richiedendo che si abbassi o si alzi la soglia per ottenere un qualcosa, ma non diciamo che l’esistenza stessa di un discrimine sia ingiusta.
Il grave errore è introdurre questo tipo di considerazioni in un dibattito in cui il senso di “discriminazione” è chiaramente ed esclusivamente solo normativo. Ovvero coloro che criticano il green pass come misura discriminatoria ne denunciano l’ingiustizia perché usano il senso normativo e critico di discriminazione. Ma affinché vi sia discriminazione in un senso proprio, ovvero una situazione ingiusta, non è sufficiente che ci sia una soglia, un criterio, uno standard; bensì bisogna stabilire che questa soglia, criterio o standard sia ingiustificato perché ad esempio include ingiustamente alcuni soggetti e non altri su basi irrilevanti, o perché non fornisce una giusta motivazione per la discriminazione. Si dà discriminazione quando le persone vengono distinte in base ad aspetti di cui non possono essere responsabili e che non possono scegliere (etnia, sesso, orientamento sessuale, religioso, etc.). Non ha senso dire che le persone sono discriminate se l’origine della supposta discriminazione è una scelta di cui le persone stesse sono pienamente responsabili e se l’inclusione nella categoria dei non-discriminati è pienamente accessibile.
La logica presuntamente disvelatrice del ragionamento di Illetterati si esprime nuovamente nel prosieguo del passo: “Una società responsabile è una società che riconosce esplicitamente le situazioni di deviazione che la sua sopravvivenza richiede. Si chiama – verrebbe da dire – politica, ossia capacità di assumere decisioni non garantite circa il loro esito, di intraprendere azioni che escono dagli automatismi di ciò che è già deciso.” Illetterati vorrebbe che il governo o il parlamento rivendicassero la loro decisione e dicessero: “Sì, stiamo discriminando tra le persone, e ne siamo orgogliosi perché la politica è decisione essenziale sulla sopravvivenza della comunità”. Il problema di questo ragionamento è che non svela niente, poiché questo è ciò che di fatto il governo si è trovato a fare negli ultimi due anni, ma, purtroppo per il ragionamento di Illetterati, non c’è nulla di ingiusto o di discriminatorio nel ragionare in questo modo. Se una “discriminazione” in senso descrittivo, cioè una distinzione tra classi di persone sulla base di una loro decisione, è giustificata sulla base dell’esigenza di sopravvivenza della comunità, non possiamo concludere che questa decisione sia discriminatoria in senso normativo. Quale altra motivazione più forte potrebbe esistere oltre alla sopravvivenza stessa della comunità?
La presunta volontà di smascheramento che vorrebbe dire la verità su una discriminazione che non si pone come tale è in realtà, a sua volta, un vezzo metodologico. La dinamica di risposta tra la lettera dei filosofi e la replica di Illetterati mostra una sorta di guerra di posizionamento tra metodi diversi. Questa guerra di posizione è comprensibile, così come sono legittimi diversi stili filosofici. Non è qui il caso di rinverdire la tanto popolare quanto disgraziata contrapposizione tra analitici e continentali (contrapposizione in parte superata e di sicuro non rappresentativa di una situazione molto più frastagliata e complessa). Ma ciò che il dibattito tra diversi stili filosofici italiani sembra lasciare in secondo piano è che questo posizionamento delle quadriglie è del tutto invisibile al pubblico generale italiano. E lo è non solo perché si tratta per lo più di differenziazioni poco apprezzabili per il grande pubblico, fatte da accademici che giustamente per lo più fanno il loro lavoro di accademici (cioè un lavoro specialistico e poco accessibile per i non addetti ai lavori), ma anche perché questo dibattito mette in ordine le briciole di attenzione di un macro-dibattito che è stato inquinato dai personaggi più visibili (Agamben in primis, ma anche Cacciari) in cui i filosofi riconosciuti come tali dal grande pubblico hanno dato una pessima immagine della categoria (categoria in senso generico, non professionale). Ovvero si sono distinti per l’indulgenza nel radicalismo fine a se stesso, per l’uso improprio delle nozioni tecniche dei filosofi, per l’essersi posti in maniera ieratica nei confronti di molteplici dibattiti disciplinari (di scienze naturali, sociali, e umanistiche), e per l’incapacità di delineare alternative oltre al rifiuto del mondo.
Al di là delle diverse opzioni metodologiche e di stile, se i filosofi hanno una responsabilità collettiva, è quella di contribuire in vario modo allo sviluppo di un dibattito corretto, informato e vario, senza pose, scorciatoie retoriche e sofismi.
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