Filosofia
AMICUS PLATO SED MAGIS AMICA VERITAS. APPELLO ALL’AUTORITà DI UN ESPERTO
Il problema. Quasi tutto ciò che facciamo e diciamo fa riferimento all’opinione di un esperto, sia essa quella di un medico che ci consiglia una medicina o un’operazione, di un avvocato che ci sconsiglia dall’intraprendere una causa contro una compagnia assicuratrice truffaldina, di uno scienziato che ci spiega perché votare sì al referendum sulla fecondazione assistita. Persino in tribunale può capitare (ahimé) che un giudice sentenzi che i vaccini causano l’autismo appellandosi a un esperto (il quale, per la verità, potrebbe aver detto tutto e il contrario di tutto).
C’è qualcosa che non crediamo in base alle affermazioni (o conoscenze) di un esperto? Ci piace sostenere di essere autonomi, crediamo di pensare in modo indipendente, talvolta persino non convenzionale, ma è proprio vero?
Proviamo a prendere in considerazione le nostre relazioni con la scienza e gli scienziati. Ammesso di non contrapporci alle opinioni degli scienziati per una qualche fede religiosa, siamo forse così indipendenti, nel nostro giudizio? O non pendiamo piuttosto dalle loro labbra?
Un appello a un esperto può essere una forma legittima per ottenere un consiglio, un avviso, una guida per trarre delle conclusioni decisive nel momento in cui la conoscenza diretta ci è preclusa. Dobbiamo in tal caso basarci sulla presunzione che ciò che ci viene detto corrisponda a realtà.
D’altro lato, se, al fine di deliberare, tentiamo di ottenere delle informazioni da un esperto ci troviamo in difficoltà: in primo luogo, non sappiamo come valutare l’attendibilità di quanto ci viene detto, visto che (almeno di solito) non siamo noi stessi esperti; in secondo luogo, quanto ci dice l’esperto o è esso stesso un atto di ricerca, condotto con tutti i criteri metodologici usuali e scientificamente riconosciuti (in tal caso non saremmo appunto in grado di valutarli) oppure è un tentativo di divulgazione (in quanto tale non sempre rigoroso) e potrebbe condurre a una semplificazione eccessiva, se non addirittura indurci in errore.
L’argomento ad hominem consiste in un’argomentazione mirante a distruggere, intaccare, perlomeno indebolire la credibilità di una persona nel contesto di una disputa. Forse questa strategia diventa necessaria quanto l’interlocutore è un esperto nel suo settore, o si basa sulla opinione di un esperto, infatti, quando cerchiamo di orientarci riguardo a una questione difficile o complicata, ci facciamo di solito (e ragionevolmente) guidare da un esperto accreditato.
Se sosteniamo che una certa conclusione è corretta sulla base del fatto che un esperto autorevole è pervenuto a una certa conclusione, ciò che facciamo non è necessariamente una fallacia. Ma un esperto non costituisce una prova conclusiva; gli esperti dissentono tra loro, anche quando concordano, sebbene si possa sostenere una conclusione sulla base di un giudizio autorevole. Se però facciamo appello a fonti che non hanno un’autorità in materia, allora commettiamo una fallacia. L’esempio più sfacciato di malriposta fiducia nei confronti dell’autorità si ha con i cosiddetti “testimonials” pubblicitari; è persino dubbio che in questo caso si possa parlare dell’opinione di un “esperto”, visto che in realtà si tratta semmai di personaggi famosi: per esempio, una nota (e apprezzata) fotomodella tedesca ci spiega quale shampoo usare, un calciatore manifesta il suo entusiasmo per una nota marca di birra.
Sempre, se la verità di un’espressione è asserita sulla base dell’autorità di qualcuno che non ha competenza nella sfera in questione, si commette una fallacia di appello ad autorità impropria. In alcuni casi l’appello è carico di tentazioni. Non solo, persino persone che hanno una certa competenza in materia possono risultare in errore, e noi possiamo rimpiangere di esserci fidati di loro.
In fondo ci troviamo di fronte a un paradosso: chi è in grado di giudicare l’opinione di un esperto? L’esperto o il non esperto? Il non esperto non conosce il campo per il quale l’esperto è competente; l’esperto, d’altro lato, non può giudicare tale opinione, perché altrimenti sarebbe parte della disputa, perdendo con ciò la sua aura di neutralità, di giudice super partes. Sarebbe allo stesso tempo parte in causa e giudice.
Forse il paradosso (formulato come un dilemma) è steso in modo tale da rendere impossibile valutare l’opinione di un esperto, o forse ci permette di riflettere: se anche gli esperti non sono super partes, essendo anch’essi almeno potenziali parti in causa, dovremo allora essere in grado di capire quel che dicono, e dovremo chiedere loro di rendere conto di ciò che dicono.
Locke, nel Saggio sull’intelletto umano, chiamò argomento ad verecundiam questo tipo di ricorso all’autorità (e noi useremo il termine per indicare la fallacia): verecundia significa vergogna, timore reverenziale, perciò tale argomento può essere letto come un invito alla modestia.
Fare ricorso a un argomento d’autorità può avere un effetto pragmatico (Boniolo & Vidali 2002), ma se l’autorità invocata non è riconosciuta da entrambe le parti, questo argomento rappresenta una mossa sbagliata all’interno della disputa. Lo stesso dicasi se l’autorevole esperto non era in quel momento (o da un certo momento in poi non lo è più stato) nel pieno possesso delle sue facoltà o se, nel momento in cui si è espresso su quella questione, stava scherzando o se il riferimento autorevole è in realtà una diceria e non è confermato. Del resto, appellarsi all’autorità che afferma qualcosa essere vero o falso non basta perché questo qualcosa sia davvero vero o falso.
Proprio per questo l’appello all’opinione dell’esperto non rappresenta un argomento fallace in quanto, bensì un argomento che sotto il profilo della portata argomentativa potrebbe essere irrilevante, in quanto non corrobora razionalmente la tesi da difendere o, allo stesso modo, non critica la tesi da confutare (Boniolo & Vidali 2002: 112).
Vediamo alcuni casi tipici, ricordando che il contesto è indispensabile per una corretta valutazione di questo schema argomentativo:
· È vero, infatti lo dice Aristotele.
· La nuova legge sugli stranieri sarà presto emendata, lo afferma una fonte governativa.
· Un amico mi ha detto che il nuovo ministro della Giustizia è un ladro.
Nel primo esempio abbiamo un vero e proprio caso (storicamente non innocente) di argomento ad verecundiam, nel secondo e terzo la strategia è quella della diceria
Molte persone si offrono, o sono presentate da altri, come “esperti” in qualche settore. È spesso molto difficile accertare quale di queste autorità meriti fiducia. Ma supponiamo di voler sapere se una certa affermazione riguardante un determinato ambito sia vera. E supponiamo che qualche persona sia considerata un esperto riguardo all’ambito in questione, o a un ambito simile. Supponiamo infine che tale persona asserisca che l’affermazione in questione sia vera. Sotto quali condizioni l’asserzione dell’esperto ci fornisce buone ragioni per accettare la verità dell’asserzione?
La risposta dipende naturalmente da quanto l’esperto asserisce e dalla competenza dell’esperto nei confronti di proposizioni come quella che ci interessa. In generale, quando dobbiamo prendere una decisione, ragioniamo come segue: questo esperto è più competente di noi, possedendo egli migliori conoscenze, maggiore esperienza o allenamento, quando si tratta di giudicare se tale asserzione è o non è vera? Se è così, il suo giudizio possiede un certo valore, nonostante costituisca un’evidenza debole. Tale evidenza può, inoltre, essere controbilanciata da altre considerazioni, persino spodestata dalla testimonianza di altri esperti più competenti di noi in materia.
L’argomento ad verecundiam è perciò fallace perché consiste nel ricorso a persone che non hanno titoli maggiori dei nostri per giudicare della verità di una qualsivoglia questione. Perfino persone che abbiano legittime pretese di autorità possono risultare in seguito in errore e, naturalmente, possiamo poi rimpiangere la scelta di esperti che abbiamo operato.
Se, nel momento in cui ci troviamo di fronte all’opinione, diretta o indiretta, dell’esperto, ci viene impedito di porre delle domande critiche l’argomento sarà fallace, nel senso che sarà una tecnica usata per impedire la discussione, più che come argomento a sostegno di una tesi; se invece le domande non ricevono una risposta soddisfacente allora l’argomento sarà piuttosto debole che non fallace; ma se alle nostre domande critiche dovesse essere fornita una risposta soddisfacente, e se l’esperto o chi utilizza l’argomento dell’esperto è in grado di sostenere l’onere della prova non possiamo più considerare fallace tale argomento, bensì almeno plausibile. La fallacia, quindi, non è qui riferita a un errore logico più o meno manifesto, più o meno volontario, bensì alle mosse e alle strategie adottate all’interno della disputa cortese (Eemeren & Grotendorst 2008).
Per non trovarci nella situazione descritta da Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi:
«Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici Galenisti ed i Peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».
(G. Galilei 1996: 114-5).
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