Filosofia
Altrove non sempre è un posto bellissimo
Caro Cigno Nero,
oggi si parla molto del metaverso, non senza qualche perplessità. Io francamente, penso e mi auguro che sarà una bolla come in passato lo è stato il progetto “Second Life”.
A mio avviso, la cosa che differenzia maggiormente Second Life dal metaverso è la volontà di non voler semplicemente sostituire la realtà con un’alternativa, quanto più quella di voler legare la nostra realtà ad una virtuale.
Senza dimenticare l’assurdità di voler migliorare la realtà, aggiungendone una posticcia, risultano molto pericolose le implicazioni che potrebbero esserci nella catena causa/effetto delle azioni svolte in ciascuno dei due mondi.
Eppure, non sono contraria a priori al voler ricorrere alla tecnologia per migliorare e facilitare la nostra vita, mi riferisco ad esempio all’ IOT (internet of things) che è quel dominio di tecnologie che consente di superare gli ostacoli di spazio e di tempo della nostra realtà, collegando in tempo reale oggetti fisici alle nostre azioni.
Il risultato finale è un nesso causa effetto che si chiude nella nostra realtà, pur utilizzando la tecnologia per superare i limiti che la natura ci impone sullo spazio e sul tempo .
A presto
Eugenia
Cara Eugenia,
il tuo riferimento ad una realtà “posticcia” rende più che mai attuale una questione su cui buona parte della filosofia si è interrogata e si interroga tuttora, e cioè il rapporto tra realtà materiale (il mondo delle cose e delle altre persone) e realtà psichica (il mondo interiore, fatto di pensieri, fantasie, desideri, immagini, sentimenti). La realtà esiste indipendentemente da noi o è strettamente dipendente dal nostro attribuirle un valore e un significato, come pensava Husserl? Dipende dal nostro interagire, nello spazio e nel tempo, con essa, come ha ipotizzato Kant? E come cambia questa domanda nel momento in cui una realtà, virtuale sì, ma comunque alternativa o addirittura parallela (se non sostitutiva, nella peggiore delle ipotesi) siamo noi a crearla?
Costruiamo la nostra aderenza al mondo sul difficile equilibrio tra principio di piacere e principio di realtà. Dove il primo, unico motore della nostra vita di infanti, ci spinge a cercare il soddisfacimento immediato di bisogni e desideri, il secondo ci insegna a rimandarli nel tempo, a considerarne implicazioni, effetti, conseguenze. Se il metaverso porta già nel nome l’ambizione di collocarsi “oltre” il mondo materiale, bypassando le sue “regole” a cominciare dalla correlazione causa-effetto e dai concetti di tempo e spazio, ci pone innanzitutto interrogativi di tipo etico: se posso farlo, lo devo fare? All’ interno di un mondo virtuale, alternativa o sostituto del mondo reale che sia, la percezione che ho di me come cambia? Tra me e il mio avatar esiste una continuità?
I vantaggi del progresso tecnologico, finalizzati a migliorare e facilitare la nostra vita, come tu stessa dici, sono innegabili. Proprio in questa nuova realtà virtuale sarà possibile, tanto per fare alcuni esempi, eseguire interventi chirurgici per acquisire esperienza necessaria nella vita vera azzerando i rischi della realtà non virtuale; il nostro digital twin (gemello virtuale) potrà inoltre simulare operazioni a distanza per valutare i consumi energetici o testare la tenuta di edifici dopo un terremoto.
Dietro i vantaggi del progresso tecnologico però si nasconde spesso un lato oscuro. Anche se ad oggi il metaverso è soprattutto intrattenimento (videogame, concerti, spettacoli di vario tipo) c’è già chi ipotizza i suoi pericoli in un futuro prossimo: dal business di terreni e proprietà commerciabili attraverso la criptovaluta e totalmente esentasse – una speculazione senza benefici per l’economia reale – all’incremento del riciclaggio di denaro sporco, senza contare l’aumento dei casi di adescamento sessuale, facilitati dal paradosso tra la possibilità di essere chi voglio, e quindi di rimanere nell’anonimato, e la raccolta di una infinità di dati, compresi quelli biometrici (conformazione fisica del volto e della mano, timbro della voce, movimenti), che permettono l’accesso all’ identità di chiunque. In sostanza abbiamo a che fare con un mondo che vuole riprodurre quello reale (addirittura migliorandolo) ma senza le leggi del mondo reale. Come sempre, quando si ha a che fare con la tecnologia, il problema – che ci ricorda quanto già profetizzato da Gunter Anders, ovvero uno scenario di eserciti di apprendisti stregoni che soccombono al proprio potere – sembra essere la difficoltà nel trovare un equilibrio tra le potenzialità illimitate in campo tecnologico e l’uso che di quelle potenzialità si decide di fare; la ricerca, in altre parole, di ciò che i greci indicavano con “katà métron”, la giusta misura guidata dal contenimento del desiderio in relazione a possibilità e conseguenze. Ancora una volta, una questione di etica.
L’impatto della tecnologia è però proprio quello di creare nuovi desideri, o, in alcuni casi, alimentarli. Con il metaverso sembrerebbe concretizzarsi, si fa per dire, un desiderio atavico e per definizione “umano, troppo umano”: quello di essere altrove. Il nostro bisogno di migrazione, la “vitale necessità di sentirci altrove”, colta così bene da Marguerite Yourcenar, e, nelle sue molteplici implicazioni, da Camus quando scrive “ciò che più importa è altrove”, ci chiede di approfondire una parola così piccola che fa risuonare molteplici significati per chi la pronuncia. Altrove è fuga o rifugio, che può farci perdere il contatto con la realtà. È non-luogo di inquietudine, che cerca la cura nel movimento, nel non essere in nessun luogo per voler essere in ogni luogo. È velo che, nella sua contraddizione tra visibile e invisibile, mostrando nasconde. Altrove è iperuranio, mondo platonico delle idee libero dalle costrizioni di spazio e tempo.
Ma il desiderio di altrove legato ad una dimensione prettamente virtuale ci rivela una assenza. La “realtà immersiva”, contrariamente a quanto la definizione potrebbe far credere, è un luogo di corpi assenti. È proprio immergendoci, infatti, che sospendiamo il respiro, promemoria della nostra carne viva. Così, dove il corpo manca viene meno anche l’immaginazione. Perché è il corpo come confine – il limite che costantemente ci ricorda di essere “imprigionati nella nostra pelle”, direbbe Wittgenstein – col suo essere finito, il suo peso e il suo ingombro, con lo spazio che occupa e il tempo che consuma, a darci quello slancio di evasione verso un oltre che non possiamo vedere ma possiamo, questo sì, immaginare. Immaginarci altrove è possibile solo dove ci sono corpi che immaginano. Ciò che ci si offre invece è di immergerci sempre più in questa nuova realtà, che intrattenendoci ci trattiene fino a farci sprofondare. A forza di trattenere il fiato ci dimentichiamo di respirare, e, anche solo non facendo caso a quel meccanismo vitale e automatico che è il respiro, ci ritroviamo sempre più distanti dalla nostra corporeità, da quel sentire e sentirci che è prerogativa dei sensi, reali o immaginati, non certo virtuali.
Ecco, se esiste un altrove che possiamo e dobbiamo rincorrere – che non ci solleva dalle responsabilità della catena causa-effetto perché, in ultima analisi, non ci solleva dalla domanda sulla nostra identità – non è quello che ci fa cambiare cielo portandoci dietro la nostra inquietudine, come ci avvertiva Seneca. E non è nemmeno quello che ci lascia in apnea con la smania di fare tutto quello che vogliamo fare perché lo possiamo fare, annullando così la nostra immaginazione. Quell’altrove, forse, sta a metà strada tra le parole di Miguel De Cervantes e quelle di George Orwell: “Nessun limite eccetto il cielo”, senza dimenticare che “La realtà esiste nella mente umana e non altrove”.
Ci stiamo disabituando ai luoghi reali, a viverli, percorrerli, camminarli. A pensarci bene, siamo dentro un paradosso: più possiamo, grazie ad una certa tecnologia, muoverci in tempi rapidi e arrivare dappertutto, più la tecnologia stessa ci dice che tutto ciò di cui abbiamo bisogno o che desideriamo possiamo averlo restando seduti davanti ad uno schermo. Ma che fine fanno i nostri corpi?
Maria Luisa Petruccelli
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