Filosofia

Altrimenti mi arrabbio. Le minacce come tecnica argomentativa?

23 Novembre 2014

I membri delle squadracce fasciste erano soliti applicare metodi diversi ma tutti piuttosto “persuasivi”: la minaccia, il manganello, l’olio di ricino, il confino, la tortura, ecc. Persuaso l’oppositore, si dimenticherebbe più che volentieri lo strumento utilizzato per ottenere tale risultato. In fondo, di fronte alle cortesi richieste di un membro delle squadracce fasciste in cabina elettorale chi potrebbe mostrarsi tanto antipatriottico da non votare per il listone del partito unico?

Questo strumento ha sempre sedotto governi e capi di stato, ma è davvero la forza che fa il diritto? Se la risposta fosse affermativa, allora gli argomenti basati sulle minacce, come le manganellate, dovrebbero essere legittimati sulla base dei loro effetti.

Un argomento ad baculum consiste (tradizionalmente) nell’appello alla forza per determinare l’accettazione di una conclusione. Sembra a prima vista una fallacia così ovvia da non meritare alcuna discussione, viola infatti la prima regola del Galateo della discussione. L’uso o la minaccia di “metodi forti” sembrerebbe essere proprio l’ultima risorsa prima della resa: un espediente rozzo utilizzato quando l’evidenza o i metodi razionali hanno fallito. In diverse occasioni tali argomenti sono però impiegati con sottigliezza, in modo (più o meno) velato al fine di estorcere il consenso.

Il fatto che nessuno venga ingannato da argomenti di questo tipo, non significa che la parte minacciata, pur non accettando la verità della conclusione che viene avanzata, non possa comportarsi in maniera appropriata. È chiaro infatti che tali argomenti non avrebbero senso se la paura non facesse novanta.

Occorre però prestare molta attenzione, perché evidenziare le conseguenze di un determinato atto, al fine di spingere a fare o non fare qualcosa, potrebbe non essere necessariamente fallace, come sappiamo, infatti: se un professore mi esortasse a studiare, sottolineando che rischio di perdere l’anno, la sua affermazione non dovrebbe venire automaticamente considerata una minaccia. Le previsioni negative, basate sull’argomento ad consequentiam, si limitano a prendere in considerazione i rischi del futuro, per poter deliberare con cognizione di causa. Ovviamente, bisogna verificare che le conseguenze supposte siano anche probabili.

Come si replica invece a un argomento basato su di una minaccia? Se non si è in grado di replicare con una forza maggiore del nostro interlocutore, si finisce sconfitti: se non puoi mordere, non mettere in mostra i denti. Diverso è il caso di una disputa con un giudice neutro, che potrebbe interpretare la minaccia come un segno di debolezza e, quindi, come irrilevanti gli altri argomenti eventualmente utilizzati per sostenere la propria posizione.

L’esame di tali argomenti rivela la logica di potenza nelle relazioni tra gli Stati, che equivale al diritto del più forte: è l’unico vero “diritto di natura” (physis) che si contrappone alla giustizia come legge (nomos). In guerra le relazioni tra gli uomini sono forse governate dall’“inevitabile” conflitto tra egemonie, come ci ricorda il famoso dialogo tra gli Ateniesi e i Melî all’epoca del conflitto che siamo abituati a chiamare “Guerra del Peloponneso”: se gli uni invocano il nomos e la giustizia, gli altri invocano la physis. Gli uni sono i Melî, gli altri sono i rappresentanti della città simbolo della libertà e della democrazia, Atene.

Non tutti gli argomenti di questo tipo sono fallaci. In tutti i paesi ci sono leggi che puniscono chi guida in stato di ebrezza. Sono forse un appello alla forza? Una minaccia? Potremmo rispondere che esse non sono irragionevoli, bensì corrette e necessarie, e che appellarsi a esse per argomentare contro la guida in stato di ebrezza non è fallace. Possiamo allora individuare una differenza fondamentale: quella tra minaccia e avvertimento. Naturalmente la distinzione dipenderà dal contesto sociale, dall’interpretazione di colui che riceve il messaggio. Forse la sanzione per chi guida in stato di ebrezza può essere differentemente argomentata: mette in pericolo la pubblica sicurezza. Così formulato, il divieto diventa una tesi esplicita basata su di un argomento ad consequentiam e si sottopone al rischio della confutazione. Se così fosse, allora, nel caso delle minacce sarebbe invece impossibile confutare l’interlocutore. Anzi, tentare di discutere potrebbe essere piuttosto controproducente.

Tradizionalmente si ritiene che l’argomento ad baculum sia fallace poiché determinerebbe l’accettazione di una conclusione, e la conseguente spinta all’azione, solo in base alla minaccia (alle manganellate). Ma è chiaro anche perché questo tipo di appello alla forza è contrario alla regole del Galateo. In un dialogo chi argomenta deve avere la possibilità, la libertà di accettare o meno una conclusione basata sull’argomento dell’interlocutore, se gli sembra che esso sia valido e persuasivo. Il vero problema è, in questo caso, che si tenta di chiudere il dialogo in modo prematuro, impedendo all’interlocutore di sostenere le proprie ragioni.

Un avvertimento, oltre a quello delle sanzioni per chi guida in stato di ebrezza, potrebbe essere quello rivolto a un giornalista che, in Iraq, svolge delle indagini tra la popolazione per un servizio sui terroristi di Al Qaida, da parte di un militare italiano: «Al tuo posto starei molto attento, perché se tu iniziassi a scoprire informazioni vitali potrebbero decidere di ucciderti».

Questa, evidentemente, non è una minaccia. Da cosa dipende? Da diversi fattori. Chi parla? Con quale tono di voce dice ciò che dice? Cosa sa su di lui il giornalista? Forse chi parla è davvero preoccupato per il giornalista. Vuole avvertirlo del pericolo. Allora le sue affermazioni non costituiscono una minaccia. Consideriamo invece il caso seguente: nel contesto di un’azione giudiziaria contro dei malavitosi il principale accusato potrebbe chiedere, prima ancora che il processo inizi: «Signor giudice, mi domando fino a quando continuerà a godere di una protezione speciale da parte della polizia».

In tal caso dovremmo parlare di un tentativo di intimidazione. Che il malavitoso sia reale o presunto non è il problema. Se questi, però, ha delle amicizie politiche, i giudici saranno forse spinti a dimettersi dall’incarico (cosa che regolarmente avviene, nel momento in cui viene tolta loro la scorta da ministri della giustizia o dell’interno collusi con la criminalità organizzata). In effetti la forma interrogativa sembra apparentemente riguardare una richiesta di informazioni. Tutto dipende dal tipo di scambio linguistico in atto. Inoltre, è anche possibile che nelle parole di qualcuno la minaccia sia velata. Una minaccia rozza, aperta, potrebbe essere severamente punita, in uno stato di diritto. Perciò a volte è persino difficile provare di essere stati minacciati.

Chi fosse accusato di aver minacciato qualcuno potrebbe (in modo più o meno ipocrita) sostenere di aver solo voluto avvertire di un pericolo, come nel caso di quel professore dell’Università di X che, avendo protestato perché un contratto di ricercatrice a tempo indeterminato era stato vinto dalla figlia del rettore (la quale si era vista riconoscere come laurea magistrale la laurea triennale e aveva potuto saltare a pie’ pari il dottorato di ricerca), si era sentito dire da un collega: «Sai, hai perfettamente ragione, è una vergogna, però al tuo posto starei attento, non vorrei che tua moglie venisse a scoprire quel tuo tale pied-à-terre, dove passi le notti quando sei all’università, e dove, di solito, non dormi da solo…».

Possiamo formalizzare l’argomento ad baculum sulla base della “forma universale dell’inferenza”: “Se non fai quello che voglio allora si verificherà una conseguenza per te molto spiacevole. Tu non vuoi che tale conseguenza si realizzi, dunque farai quello che voglio”. Il problema, con questa formalizzazione (e con questo argomento), è che non è chiaro se la conseguenza sia necessaria, e se il legame sussista davvero. È la minaccia che lo fa sussistere, almeno per chi deve deliberare. La conclusione potrebbe basarsi sulla paura, sull’istinto, più che sull’evidenza o probabilità delle conseguenze negative di una decisione (e questo è il rischio di tutti gli argomenti basati sull’emozione). È un modo sleale di influenzare il nostro oppositore.

Per ricapitolare, ecco come si controllano gli argomenti ad baculum:

 

1) identificare, se possibile, la conclusione che si si suppone essere stata provata;

2) individuare l’argomento contenente l’eventuale minaccia;

3) verificare che non sia un argomento basato sulle conseguenze.

4) La minaccia, se c’è, potrebbe non essere necessariamente usata come argomento, o parte di esso, per persuadere qualcuno a fare qualcosa.

5) Se invece mancasse una connessione tra la minaccia e l’argomento, allora il rilievo di violazione del Galateo della discussione sarebbe esso stesso irrilevante, ma forse chi ci minaccia potrebbe meritarsi una denuncia).

 

E voi? Avete mai ricevuto minacce, anche velate, al posto di argomentazioni?

 

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