Filosofia
A scuola di uguaglianza e differenze
Caro Cigno Nero,
ti scrivo dopo uno scambio con una mia conoscente, persona tanto aperta e democratica, con cui condivido alcune escursioni in montagna a fine estate. Mi ha colpita quest’anno la sua argomentazione mentre parlava della scuola frequentata dai suoi amati nipoti, che vivono in una cittadina bene del centro-nord: “Con tutta la solidarietà e la comprensione per questi poveri ragazzini immigrati… Ma loro si dovrebbero formare altrove! Non possono essere inseriti insieme agli altri: così rallentano la classe e il programma, e non lo dico solo per i miei nipoti, ma anche per il bene loro, che nemmeno conoscono la lingua”.
Non mi aspettavo parole così poco inclusive da una persona come lei, per cui mi sorgono due domande: una sulla giustizia di una scuola impostata nella maniera che lei propone, e un’ altra su quanto sia facile cambiare la nostra scala di valori, come se si trattasse di un paio di scarpe.
A presto.
Grazia
Cara Grazia,
la tua mail è arrivata prima dell’insediamento del governo Meloni, quindi prima di Giuseppe Valditara e del suo neobattezzato Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Questa novità del merito ha solo apparentemente poco da spartire con l’idea ventilata dalla tua conoscente, perché qualcosa le avvicina più di quanto pensiamo, ed è il principio di separazione: quello che ci fa dividere gli studenti, tra coloro che sono meritevoli e coloro che non lo sono, tra coloro che sono figli della cultura dominante e coloro che non lo sono, tracciando un bel confine tra noi e gli altri, tra chi è in e chi è out.
Nulla di più imbarazzante nel panorama educativo, che, dopo aver inaugurato le classi miste prima, abolito quelle differenziali e le scuole speciali poi, indirizza tutte le sue energie verso il principio costituzionale di una scuola aperta a tutte e tutti, senza distinzione alcuna; aperta anche a chi ‒ pensiamo un po’ ‒ un permesso di soggiorno neppure ce l’ha. Allora oggi a scuola non si parla di alunni immigrati, poveri o disabili, ma si parla di BES, cioè di persone con bisogni educativi speciali ‒ siano essi di natura psicofisica, oppure dovuti a svantaggi sociali, culturali, linguistici o di deprivazione economica ‒, utilizzando un’unica dicitura per riferirsi a tutti gli studenti, che hanno il diritto di poter apprendere allo stesso modo, tenendo conto della loro storia, della loro personalità e dei loro talenti. Anche l’adozione dell’ICF (Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute) nel contesto educativo viaggia sullo stesso binario perché, annoverando ciò che l’alunno sa fare, i suoi punti di forza e le sue inclinazioni, mai assoluti ma sempre determinati dalle relazioni e dal contesto, riesce clamorosamente ad ottenerne un profilo esauriente, e senza bisogno di fare alcun cenno agli svantaggi più o meno evidenti. Si tratta, in sintesi, di leggere la realtà di ciascuno in maniera ribaltata rispetto al passato, permettendoci di incontrare nelle scuole solo giovani persone con talune o talaltre capacità, giovani persone diverse e non per questo diseguali, semplicemente uniche e non gerarchicamente ordinate.
Il mondo della scuola ha gettato le fondamenta teoriche per un bellissimo cambio di rotta, che però ha bisogno ancora di ripetuti collaudi nel trasferimento alla pratica, e prima ancora necessita di farsi carico di una svolta culturale autentica.
Se le parole non sono innocenti, forse è il caso di interrogarsi proprio intorno a quell’inclusione che citi, termine tra i più gettonati del momento.
Seppur mosso dalla lodevole intenzione di opporsi all’esclusione (e all’esclusività), “in-clusione” ha un prefisso tanto minuscolo quanto ingombrante che rimanda prepotentemente a un dentro, e che, accompagnato a quella “clusione”, oltre a diventare più asfissiante, delinea uno spartiacque. Già, perché che senso avrebbe insistere su un dentro, alludere a un recinto, se non covassimo un atavico bisogno di preservare un fuori da tenere, appunto, fuori?
Pensiamo all’inclusione delle vacanze all-inclusive, quelle in cui ci vendono soggiorni corredati di ristoranti, drinks, piscine, centri benessere e tutte le escursioni possibili, come se la totalità del reale fosse lì, a nostra portata di mano. E però così non è, perché esiste tutto un mondo che tracima dal “pacchetto”, quello delle periferie, dei margini, della vita vissuta, che non è incluso ‒ e forse nemmeno noi vogliamo venga incluso, se non come messa in scena posticcia e turistica che fa tanto esotico ‒.
Ma noi a questa sfumatura nominale non badiamo, e anche a scuola, allora, continuiamo a perseguire l’encomiabile obiettivo di includere, accogliere, prendere con noi, rimarcando così quel benedetto limite tra noi e loro, tra chi è già dentro e chi a quel dentro può accedere solo grazie alla nostra magnanima intercessione, incarnando così quella che Derrida ha chiamato “ostipitalità” per fondere insieme l’ospitalità col residuo di ostilità che sempre vi si cela.
Se questa è l’unica alternativa che sappiamo mettere in campo, una inclusione cioè che purtroppo, semplicemente per il suo essere posta, chiude dentro ‒ attraverso un varco enorme, per carità ‒ lasciando così essere un fuori, si capisce quanto siamo ancora impantanati nello stesso schema mentale del passato, e posizioni quale quella che hai descritto diventino quantomeno plausibili.
Il fatto è che la scuola dovrebbe essere lo specchio del mondo così come è, cioè un mondo in movimento, eterogeneo e pieno zeppo di differenze, ma ancora prima dovrebbe anche essere specchio di come il mondo vorremmo che fosse, cioè uno spazio libero da confini, in cui le diversità convivano come tali, scambiandosi gioiosamente valore aggiunto.
Se poi includendo escludiamo per forza di cose, prestiamo il fianco anche a quell’altra sfumatura dell’esclusività e del merito, che porta a formare il simile con il simile. In questo scenario alunne e alunni avrebbero un bel crescere sotto il profilo didattico, ma sarebbero inevitabilmente piccoli sotto quello umano e civico, perché li prepareremmo a un mondo in cui l’altro neppure saranno in grado di vederlo, dal momento che l’altro ogni mattina non li riguarda, e non li “ri-guarda” ‒ per dirla con Lévinas ‒ proprio nel senso della vista, dello scomparire dall’orizzonte visuale, trovandosi altrove, in un’altra classe, se non in un’altra scuola. Eppure la scuola è pubblica perché è di tutte e di tutti, così come un singolo paese e così come il pianeta. E se non ci si riconosce almeno in questa evidenza, esiste sempre la vasta schiera in espansione di scuole e università private, quelle esclusive dei meritevoli, dove i ricchi stanno coi ricchi e i bravi coi bravi. Già, perché anche essere benestanti o intelligenti pare essere un merito.
Dietro tutto questo cova la fissazione che abbiamo per il possesso, e il discorso va esattamente nella direzione della tua seconda domanda. Perché è sempre una questione privatistica quella che ci fa ritrattare la nostra scala di valori e fa parlare la tua conoscente aperta e democratica: se fossero stati nipoti di altri, probabilmente il suo pensiero sarebbe stato diverso, o addirittura opposto. È per lo stesso meccanismo che in tante realtà ‒ specialmente nelle più provinciali, in cui ci piace apparire cittadini esemplari ‒ all’ingresso di un nuovo ordine di scuola si fa di tutto per inserire i figli in una certa sezione piuttosto che in un’altra; il risultato è quello di vedere nelle nostre scuole pubbliche classi brillanti e classi in cui gli svantaggi si accatastano, rispecchiando una realtà distopica che da persone a modo quali siamo ci scandalizza e della quale però siamo noi stessi complici, mentre inneschiamo così nei bambini quella componente individualistica e competitiva che per loro natura non hanno.
Ma ci giustifichiamo con la buona intenzione che ci anima, perché vogliamo il meglio per i nostri cari, per il nostro mondo piccolo ‒ poi il mondo di tutti è un’altra storia ‒, convinti di sapere cosa sia meglio e il meglio, e altrettanto convinti che una classe per metà immigrata non sia il meglio per lo svolgimento del programma, sorvolando ciechi sul fatto che i programmi a scuola non esistono più.
Le persone però non sono una proprietà, non lo sono i figli, né i nipoti. Le persone, tutte le persone, sono della vita e del mondo, che abitano o si preparano ad abitare da cittadine e cittadini.
A volte, forse, è solo questione di ricucire il pensiero con la vita.
L’antropologo francese Agier sostiene che i migranti, dovendo far fronte a un cambiamento spesso estremo, diventano più intelligenti perché, decentrati dal loro centro, imparano a relativizzare e ad ampliare l’orizzonte, iniziando a comprendere che il loro non è l’unico mondo esistente.
Se così stanno le cose, chi è che “rallenta”? E che cosa “rallenta”?
Irene Merlini
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