vivere sospesi: un lavoro a tempo pieno

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Vivere sospesi: un lavoro a tempo pieno

19 Agosto 2024

vivere sospesi: un lavoro a tempo pieno La Posta del Cigno Nero è stata sospesa per un anno, ma oggi torna con una riflessione “fuori rubrica” ed è pronta a ripartire: sarà ospite, insieme a Francesca Rigotti e Carola Barbero, della manifestazione “l’Approdo del Pensiero”, che si svolgerà in un suggestivo porto del Salento, Tricase Porto, dal 23 agosto al 6 settembre. Risponderà alle lettere imbucate, in questa occasione rigorosamente scritte con carta e penna, come sempre su Gli Stati Generali.

Riccardo ha 27 anni e da tre anni vive sospeso. Alle sei del mattino di un giorno di giugno, seguendo la fune ancorata ad un pilastro del mio terrazzo, ho così incrociato, sotto il caschetto giallo di protezione, gli occhi di questo ragazzo gentile e introverso, a cui ho offerto un paio di caffè, “sospesi” anche loro.
L’edilizia acrobatica è un lavoro di cui non conoscevo l’esistenza. Nasce nel 1994 quando lo skipper genovese Iovino ha un’idea: trasferire nel campo dell’edilizia le tecniche per lavorare sugli alberi delle barche a vela, in modo da poter intervenire su qualsiasi tipo di edificio in altezza con un sistema di funi. Per mettere alla prova la sua idea è proprio lui a cimentarsi con questo particolare tipo di acrobazia sostituendo la grondaia a casa di un suo amico.
Osservare un ragazzo di 27 anni giorno dopo giorno penzolare da una fune, sospeso tra cielo e terra, mi ha portato con la mente a quella più ampia condizione esistenziale che ci appartiene: il vivere sospesi, sempre in attesa di qualcosa. Di un risultato, di una risposta, dell’esito di un esame, della fine di una brutta giornata, di un nuovo inizio più promettente. E ancora, di un amore, di una svolta, del colpo di fortuna. Di una vita migliore. Allora forse non è un caso che questo lavoro di cui non sapevo nulla abbia la sua culla nel mare, che sia nato in un porto, tra vele e alberi maestri. Perché, se è vero che il porto è per definizione il luogo dell’attesa, è anche vero che l’attesa ci tiene in sospeso, in balia degli eventi che sfuggono al nostro controllo. Che poi è la condizione tipica del naufragio, un naufragio che diventa “infinito” come metafora dell’esistenza per Karl Jaspers, dove le onde, imprevedibili, rappresentano il “muro invalicabile della realtà”.
E se su quel muro potessimo in qualche modo intervenire, proprio come fanno Riccardo e tutti quelli che come lui lavorano stando sospesi? Se esistesse un modo per far sì che l’attesa diventi l’avamposto da cui provare ad allargare la nostra visuale sugli eventi del mondo?
Le attese non sono tutte uguali, questo lo sappiamo bene. Ma per qualche motivo all’attesa tendiamo a dare una connotazione negativa: cerchiamo stratagemmi per ingannarla, la facciamo coincidere con la noia, con l’impazienza, con l’inquietudine. Finanche quando è intrisa di speranza, che ha dimora nel futuro, ci rende immobili, passivi, inchiodati tra aspettative e timori. Lasciamo che le attese perciò trasformino la nostra percezione del tempo, che diventa un tempo vuoto che non sappiamo come riempire, che proviamo a farcire con qualunque cosa ci aiuti a distrarci dall’attendere, ma che dovremmo piuttosto imparare a nutrire; un tempo in cui, sospesi, diventiamo incapaci di volgere lo sguardo a quelle piccole cose da cui avremmo tanto da imparare. Le “piccole cose” tanto care a Francesca Rigotti. Cose che ci sembrano “piccole” se le guardiamo dalla prospettiva di chi è “in sospeso”, ma che necessitano proprio di “uno sguardo che vede le cose prendendone le distanze, senza pregiudizi, quasi a carpirne la dimensione originaria, genuina, ingenua”, come scrive la filosofa.
Nell’edilizia acrobatica i turni su fune hanno un tempo massimo: ogni operaio non può rimanere in sospensione per più di quattro ore. Dunque sembra lecito domandarsi: c’è un tempo oltre il quale non si può restare in sospeso? Esiste un limite, una scadenza per l’attesa? In sala d’attesa, in coda al casello di un’autostrada, in fila al bar o ascoltando al telefono una voce registrata che ci dice di non riagganciare per non perdere la priorità acquisita.  In tutti questi scenari sappiamo che prima o poi sarà il nostro turno. Ma fuori di lì? Ad un certo punto sembra fisiologico il bisogno di scongelare il tempo dell’attesa, riprendere a vivere. Certo, non esiste una scadenza uguale per tutti. Ognuno di noi ha i suoi tempi. E qualche volta succede che prevale, come d’istinto, la voglia di (s)muoversi, di prendere una direzione o cambiarla del tutto, di uscire da un pensare circolare ed ossessivo. Di tornare con i piedi per terra, stanchi di restare in balìa di onde che non permettono nessun ancoraggio, che non consentono l’attracco in un porto sicuro.
Il pensiero torna allora al naufragio infinito e a quel muro invalicabile con cui Jaspers identifica la realtà; e torna a Riccardo, il cui padre lavorava sulla impalcature tradizionali, “con i piedi per terra”, mentre lui ama stare sospeso “in sicurezza” e odia invece oscillare nel vuoto senza appigli; che aggiusta le cose, le rinnova, le restaura, le ripara. E forse è a questo che dovremmo dedicarci, dalla posizione in cui l’attesa ci tiene: ad aver cura, come Riccardo si prende cura degli edifici da cui penzola. Chissà che non sia proprio la cura l’ingrediente segreto, quello che può rendere le attese perfino “dolci”, aggettivo che abbiamo stranamente riservato ad un solo tipo di attesa: quella di un figlio.

La gravidanza è un’ attesa di cui si conosce già la durata. E se, come scrive Carola Barbero in ”Attesa”, “si dice che l’attesa sia una dimensione tipicamente femminile perché  le donne sono biologicamente progettate per aspettare”, è pur vero che si tratta di un evento che “nell’immaginario collettivo è molto idealizzato: le donne in (dolce) attesa sono (solitamente descritte come) belle, felici, floride e serene, in breve come esseri in uno stato di beatitudine e grazia”. Che le cose non stiano sempre, proprio o per forza così lo sappiamo per esperienza, poco importa se diretta o indiretta. Sapere che allo scadere dei nove mesi si diventerà madri non cancella i timori, tanti e di diversa natura; vedere il proprio corpo che si trasforma, e non solo il “bel pancione” che cresce e che tutti guardano con tenerezza, non solleva dal disagio fisico e psichico che si prova nel dover familiarizzare con una nuova immagine di sé. I dubbi, le incertezze su una vita che cambierà per forza di cose sono tanto normali quanto destabilizzanti. Questa particolare attesa, che ha l’intera gamma dei sapori, da quello più aspro a quello amaro, è l’unica tuttavia che diamo per scontata.
Attesa e cura condividono la lentezza – assolutamente in controtendenza rispetto al nostro presente convulso fatto di incessanti accelerazioni e affannose rincorse -, il tempo che “si prende tempo”, senza fretta di riempire vuoti, ma con la predisposizione ad accogliere ciò che arriva, rimettendoci in contatto con quella dimensione dell’infanzia che credevamo perduta per sempre: la sorpresa dell’inatteso.

Il tempo sospeso dell’attesa potrebbe allora diventare il tempo della cura. Dedicarci a tutte quelle piccole cose cui abbiamo sempre riservato angoli troppo stretti e anfratti troppo angusti da raggiungere, potrebbe restituire un senso a quel tempo che continua a sembrarci perso, sprecato, vuoto. A pensarci bene, quante volte lamentiamo proprio la mancanza di tempo per dedicarci a noi stessi e a fare quello che ci piace o ci gratifica? In fondo si tratterebbe di riappropriarci di quel “vuoto” del tempo passato ad aspettare vedendolo come possibilità. Possibilità che il vuoto diventi il nostro piccolo cantiere, o se ci piace, la nostra stanza delle “piccole cose sospese”. E in questa stanza prenderci cura di noi, chiamare qualcuno a cui teniamo e che non sentiamo da tanto, scrivere una lettera con carta e penna per poi metterci la strada sotto i piedi per andare ad imbucarla; e ancora, leggere quel libro che a sua volta ci aspetta, provare una nuova ricetta, andare in giro per la città senza meta.
Una volta tanto, farci sorprendere da quello che non (ci) aspettavamo, nemmeno da noi stessi.

Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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