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Stabat Mater Dolorosa, un concerto e una domanda contro i bonus
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Abbiamo fatto abbastanza travolti dalla pestilenza? Abbiamo sfruttato appieno i nostri talenti, piccoli o grandi, individuali o al servizio della comunità? Abbiamo stretto mani tutti insieme mettendo la difesa dei nostri cari dalla virulenza al primo posto del nostro quotidiano agire?
Queste domande me le sono portate dentro nelle settimane scandite dalle cronache della peste e ogni giorno mi sono chiesto cosa avrei potuto fare io come tutti, chiuso in casa, per difendere i miei cari o per aiutare chiunque avesse un bisogno e mi capitasse a tiro: non per vocazione alla santità ma, con tono ben più dimesso, per dovere civile e umano. La lettura del bollettino ogni giorno non era paura che suscitava ma commozione, senso di impotenza; non rabbia ma lucida voglia di reagire anche fosse il solo attenermi alle regole, il provare con la penna a far capire ai non Bresciani cosa accadeva qui, il cercar mascherine e guanti nei continenti lontani. Non mi sono sentito più libero quando è tornata la Movida, mi sono rifatto ancor più le domande iniziali stentando a trovare una risposta consolatoria. Sono domande che razionalmente o irrazionalmente ci siamo posti in molti, forse tutti, ciascuno a suo modo: sono il debriefing necessario dopo una crisi profonda e storica.
Stabat Mater Dolorosa di Vivaldi nella Chiesa del Carmine di Brescia forse era la occasione per evitare le giacche blu anche estive, la pochette alla quale mai rinuncio, la cravatta d’ordinanza come cilicio nell’afa di Luglio, la divisa da combattimento di chi sa di avere una responsabilità temporanea verso la città ancor più che una auspicata e spesso mal praticata formalità serale. Credo che tutti i presenti alla anticipazione meritoriamente organizzata dalla Fondazione Teatro Grande abbiano fatto molto, in qualche caso moltissimo in questi mesi ma quel concerto, con quella raffinatissima scelta musicale che chiudeva con Nisi Dominus non poteva essere una commemorazione di chi ci ha lasciato e nemmeno un “Grazie!” a chi più di altri fu in prima linea perché altri appuntamenti, non saprei dire quanto efficaci, avremo nei prossimi mesi o anni. Credo potesse invece essere inteso come un momento di riflessione individuale, senza giacca blu, per chiedere a se stessi brutalmente “ho fatto molto, moltissimo: ho fatto abbastanza?”
Temo che per motivi diversi e nonostante gli incredibili sforzi la risposta sia negativa, e lo dico con pudore e rispetto altrui ma convinto che o ne prendiamo atto e agiamo di conseguenza o non impareremo nulla se non a far celebrazioni e versare lacrime. Anche solo il non aver protetto e difeso i nostri anziani ci condanna ad accettare il limite del nostro agire, una responsabilità che dobbiamo sentire tutti sulle spalle perché purtroppo anche chi ha provato non è riuscito: avrà una coscienza più leggera ma il rimpianto non può non rimanere. A nulla vale sia capitato anche altrove: vale che non siamo stati noi all’altezza. Vale per i sanitari che più di altri nella loro professionalità hanno fatto cose straordinarie ma hanno dovuto riflettere sulla finità della scienza; vale per il politico che conosce la passione quanto il cinismo ma non deve negare i fatti a se stesso per ragioni di parte. Vale, sia chiaro, per ognuno di noi e importa soprattutto non ricordare l’accaduto solo come un fatto storico, come una cosa di cui abbiamo già offuscato il susseguirsi cronachistico degli eventi perché non abbiamo ancora distanza sufficiente per una memoria ordinata; va ricordata la nostra inadeguatezza “dentro” perché sia sfida a fare meglio. E non può l’invocare alcuni di noi come “eroi” essere giustificazione della nostra inadeguatezza solo perché non tutti manzonianamente possono essere eroi. Soprattutto, non possiamo chinarci “al tornare alla normalità”, al voler alimentare l’idea che ci fosse un’epoca d’oro, che il Tempo abbia la circolarità dei Greci: noi che abbiamo conosciuto gli errori della filosofia della Storia sappiamo che dire “si torna alla normalità” è il passato di una illusione perché la riflessione sui nostri limiti porta per forza ad avere un futuro diverso, dai Business Model alle nostre abitudini: è la certezza, l’incertezza è se riusciremo a inventarlo migliore.
Questo è stato il mio personale sentire davanti a uno Stabat Mater Dolorosa al quale ho partecipato “maleducatamente”, data la sua ufficialità, presente in camicia senza uniforme: la necessità di continuare a chiedermi e non l’omaggio ufficiale al ricordo. L’assumere responsabilità con me stesso, non partecipare al dolore. Non celebrare ma domandarmi. Non chiedermi, come di prassi, della qualità della esecuzione artistica ma dell’effetto sull’anima: non era il controtenore il protagonista ma la mia, nostra capacità di ragionare grazie al barocco ancor giovane del Prete Rosso, perché la musica se ti entra dentro apre la strada al pensiero e alla riflessione: ma devi volerlo.
“Nisi Domine…. Vanum est vobis ante lucem surgere … invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica, al suo prediletto egli lo darà nel sonno” musicò Vivaldi il salmo ma non tutti noi oggi possiamo riposare sazi.
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