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Sponz Fest Cronache 7 – Gli uomini-bestia e la luna piena, 25 agosto
Il risveglio non era stato facile in quella camera che aveva sempre giudicato troppo piccola. Vedere anche solo raffigurata la possibilità di una rivolta lo aveva turbato, perché tutto rischiava di tramutarsi in una caccia al diverso e quella cosa lo feriva particolarmente. In lui si era risvegliato quell’istinto mannaro che negli ultimi due giorni si era praticamente sopito, ma si avvicinava nuovamente la luna piena e la sua metamorfosi in bestia dal pelo duro. Uscì di casa senza una direzione precisa. La sua natura era quella, aveva un doppio con cui ogni giorno doveva imparare a convivere. Avrebbe volentieri rinunciato a quel suo essere mannaro, ma era una cosa più forte di lui, una cosa che non poteva controllare, come d’altronde non poteva comandare al giorno e alla notte, né al movimento delle maree.
Camminando dentro quei pensieri che lo accompagnavano, era sceso giù fino alla stazione di Calitri Scalo, alla ferrovia. Il treno a Calitri era tornato da pochi anni, e solo per alcune occasioni di carattere turistico. Da tempo le erbacce si erano prese tutti i binari, e solo riuscire a ripulirle, tanto da farci passare nuovamente dei convogli, era stata un’opera mastodontica di cui la gente del posto solo in parte si doveva essere resa conto. Sentì il capotreno fischiare, e colto di sorpresa dal quel suono, gli venne automatico montare a bordo, anche senza biglietto. La prima cosa che notò della carrozza su cui era montato fu l’eleganza dei particolari, riflessi ottocenteschi, quando prendere il treno doveva essere un lusso, una cosa che si potevano concedere solo in pochi.
La panca su cui si era seduto gli sembrava particolarmente scomoda, però aveva un odore buono, ma non era solo il legno a dare all’ambiente quella fragranza, c’era un odore di donna, qualcosa che aveva già sentito nei giorni passati e che sul momento non riuscì a decifrare. Sul treno c’erano anche dei musicisti ad accompagnare il viaggio, passavano da una carrozza all’altra seguiti dalla gente che batteva le mani. Lui si voltò per vedere loro che suonavano e vide sulla panca dietro di lui la ragazza occhi verdi. La chiamò, Alba di Luna. Lei riconobbe la voce e si girò con un sorriso già stampato sulle labbra. Poi si alzò dal posto che stava occupando per andare a sedersi accanto a lui. Si raccontarono ciò che avevano fatto dall’ultima volta in cui si erano visti, lui le confidò ciò che lo aveva colpito e quelle scene di rivolta che solo in un secondo momento aveva capito essere solo una messa in scena. Lei gli mise una mano sulla gamba per tranquillizzarlo, era la prima volta che qualcuno si prendeva una simile confidenza.
La prima volta che lei aveva preso il treno era stato in Messico, qualche anno prima. Nella zona di Ruca Choroi, dove lei era cresciuta, la scuola elementare non era assicurata per tutti, il governo argentino mandava dei maestri elementari nella valle, ma i bambini della montagna come lei non potevano scendere per frequentarla. Così l’educazione primaria era affidata ai genitori e suo padre, appena considerò esaurito tutto ciò che poteva insegnarle, decise di mandarla per qualche mese presso una tribù di messicani dove si praticavano varie tecniche di medicina naturale. Quel viaggio verso il Messico se lo fece da sola tutto in treno, e quella fu la prima volta che viaggiava su una strada ferrata. Lui non ricordava esattamente la sua prima volta in treno. Ne aveva presi parecchi da ragazzo, specialmente per spostarsi durante l’università, ma non aveva la fotografia esatta di quando fu. Risero molto nel corso di quella conversazione, e a lui sembrava nuovamente scomparso il suo istinto mannaro, e quella fame forte che lo prendeva allo stomaco tutte le volte che quell’istinto in lui si veniva a manifestare.
Dalla stazione di Calitri all’arena dei concerti se la fecero tutta a piedi, avevano tempo prima che cominciasse il concerto di Vinicio Capossela, e il sole era coperto parzialmente dalle nuvole. Andavano lentamente e si godevano quella confidenza che stava continuando a crescere. Un ora e mezzo prima del concerto si era già formata una fila discreta ai cancelli. L’arena del vallone cupo si riempì velocemente di gente e quella serata ebbe il sapore di un compimento, di una parabola che si chiudeva, quelle canzoni che i musicisti stavano eseguendo tornavano all’origine del fiume da cui erano nate. Fu una notte selvaggia, selvatica e umana allo stesso tempo, accompagnata da una delle voci più originali del teatro. Una notte di interramento e restituzione di quelle canzoni al luogo mitico da cui esse avevano preso il nome. A un certo punto dal fondo dell’arena di materializzarono altre creature mitologiche e selvagge, le maschere di Tricarico, i rummiti, i diavoli krampus di Canzei, e i merdules. Avanzarono per tutta la lunghezza dell’arena tra la gente che batteva le mani, fino a raggiungere il palco e intonare il ballo di San Vito.
Finito il concerto, la luna era piena e brillava come non sembrava avere mai fatto. Intorno a tutti quelli che stavano uscendo dall’arena si radunarono quelle figure mitiche, mezzi uomini e mezzi animali. Lei sembrava divertita da quel circo improvviso in cui si trovarono coinvolti. Alcuni di loro battevano dei bastoni a tempo, altri emettevano suoni rochi, altri portavano grosse campanelle al collo, e tutti avevano visi dai contorni animaleschi e peli ovunque, danzavano al ritmo di quella musica tribale che dal vallone cupo stava invadendo lentamente tutto il paese. La luna accompagnava tutto, e lui cominciò a sentire un prurito alla base del cranio.
I peli cominciarono a spuntargli dovunque: spalle, braccia, mani, dorso, schiena, gambe. Anche nel viso sentiva crescere il lupo che era in lui. Mantenne la sua solita postura, ma perse l’uso della voce, e latrava. Aveva perso ogni cognizione di tutto quello che gli stava intorno, aveva dimenticato che lì vicino c’era la ragazza occhi verdi, sembrava quasi non essere più interessato da lei, aveva solo fame e sentiva di doversi unire a tutti quegli esseri animali che andavano verso Calitri insieme a lui. La gente che gli stava intorno lo guardava con ammirazione, sembravano tutti pensare che fosse un pezzo della festa, una di quelle creature ibride che erano annunciate anche nel programma. Arrivati in paese tutti gli battevano le mani, osservandone la bellezza della maschera. Ma lui era l’unico a sapere che una maschera non c’era, e che il mondo per lui, ogni ventinove giorni, era selvaggio, selvatico e inselvatichito proprio così.
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