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Sponz Fest Cronache 4. La musica antica delle parole, 22 agosto 2018

23 Agosto 2018

La ragazza occhi verdi lo stava chiamando. E si sbracciava dall’altra parte della strada. Il pomeriggio era caldo e lui stava vagabondando lungo il corso del paese, e guardava tutti quei ragazzi radunati davanti ai bar. Avrebbe voluto essere come loro, molti indossavano la maglia dello staff e dice fossero venuti da tutta Italia per unirsi al rito dello Sponz. La ragazza occhi verdi lo aveva raggiunto e gli aveva chiesto come stava e se gli piaceva tutta quella situazione. Lui pronunciò le prime parole da quando quella festa era cominciata, aveva la lingua impastata e le disse se gradiva un gelato. Lei accettò molto volentieri. Se ne uscirono da quel bar lungo il corso con due coni che consumarono con disinvoltura mentre parlavano tra loro. Lei utilizzava una spagnolo che era molto vicino all’italiano, lui un italiano che accompagnato dai gesti era comprensibilissimo da chi parlava spagnolo. Lei aveva viaggiato quasi tre giorni per arrivare fino lì, diciotto ore di volo. Finita quella festa sarebbe volata verso Parigi per vedere la Gioconda, il Louvre e tante altre cose, poi avrebbe fatto rientro in Patagonia.

L’orologio indicava le 17.30, era il momento giusto per cominciare a scendere verso la Cupa, il programma indicava che c’era da camminare per raggiungere l’arena ricavata in quella parte del paese. Nel pomeriggio presto era piovuto e il concerto sicuramente sarebbe cominciato con un po’ di ritardo. Commentarono che il lavoro per organizzare tutto doveva essere stato tanto, e rimasero piacevolmente colpiti nel vedere quanto poteva essere fatto anche in un piccolo borgo come quello. Lui si stupì nel sentire quelle parole che uscivano così tranquillamente dalla sua bocca, quasi si fosse sciolto quel blocco alla lingua, quello che gli era venuto una notte che la mutazione rimase a metà, qualche anno prima. Una notte che sentì la solita sensazione di straniamento e di peli che non poteva controllare e che sembravano voler crescere sia dentro che fuori, e un buco allo stomaco, quella fame che non si sapeva spiegare ma che si impossessava di lui e lo rendeva prima mannaro e poi, a volte, anche porco maiale. Ma la metamorfosi non si compì e lui rimase per ore sdraiato per terra nella condizione non facile di non essere né uomo, né lupo. Questi pensieri durarono poco, perché mentre scendevano lo scenario che avevano intorno stava velocemente mutando, e ovunque posassero lo sguardo era tutto stupore.

Lei aveva una piccola borraccia da cui bevve qualcosa, e ne offrì anche lui, che ne prese e sentì il sapore di una tisana saporita e fresca scendere giù per la gola. Arrivati all’arena del concerto, nel vallone cupo, passarono senza tanti problemi i controlli della biglietteria, lei aveva un pass che dava accesso a tutte le aree dell’evento, e lui che era con lei si prendeva tutti i vantaggi di quel piccolo privilegio. Si avvicinarono il più possibile al palco del concerto. Lui continuava a conversare e sentiva le parole uscire dalla sua bocca come note di una musica antica. La sensazione che stava provando era di una incredibile leggerezza alle mani e ai piedi, ci fosse stato solo un po’ di vento, pensò, non sarebbe stato difficile prendere il volo. Gli occhi verdi della ragazza cominciavano a essergli sempre più familiari. Pensò come doveva essere avere una sorella, e un vincolo di sangue con una ragazza come quella lì. E la musica antica di tutte quelle parole che stavano uscendo dalla sua lingua incantò anche lei che sembrava voler rimanere solo lì, accanto a lui.

La serata passò velocemente, sul palco Angelo Branduardi aveva cantato accompagnato da un gruppo di musica antica. Nel vallone era arrivata tanta gente per quel concerto a pagamento. La festa sembrava essere piaciuta anche a Branduardi stesso, che aveva commentato positivamente l’iniziativa. Finito il concerto tornarono giù verso il paese. Si formò un’altra di quelle carovane di gente che teneva birre in mano e commentava quello che aveva appena visto, e loro due in mezzo. Molti salutavano la ragazza occhi verdi, facevo cenni con le mani, l’avevano vista all’opera in uno di quei laboratori che vedeva lei e i Mapuche impegnati in quei giorni di festa la mattina. Lui di lei non sapeva nemmeno il nome, ma da quello che gli aveva raccontato stava apprendendo i primi rudimenti della medicina Mapuche e di quello si occupava in quei laboratori. Sapeva anche impastare erbe e sabbia e guarire, ma di questa cosa continuava a fare mistero, accennò alla cosa nei vari discorsi che fecero, senza mai andare a fondo, quasi avesse una reticenza a raccontare a un occidentale quella porzione di vita che lei stessa pensava affondare le sue radici in un terreno diverso da quelli che in occidente si battevano.

La notte aveva già dato il cambio completo al giorno, e l’aria che si poteva respirare era delle migliori. Lui si sentì sciolto in tutte le parti del suo corpo, sentiva sete e le fece cenno di porgergli la borraccia con la tisana, e sì stupì di essersi preso quella confidenza. Tra tutti i suoni di sottofondo lui sentì quello di un giradischi che si metteva in moto e poi musica di un ‘68 giri, arie anni ‘60. Fece cenno anche a lei di restare a ascoltare e anche lei sentì quelle musiche che sembravano arrivare da una balera e la puntina che ne produceva il suono. Era una musica su cui si poteva ballare e lui la invitò alla danza. Portati da quei violini e dal contrabbasso si presero tutto lo spazio che sarebbe servito per muoversi con comodità.

Poi si videro entrambi bambini per una delle strade del paese a rincorrersi mentre giocavano a nascondino. La musica era sempre la stessa. La mamma ogni tanto si affacciava sulla porta e cercava di vedere dove fossero. Lui correndo cadde e si sbucciò un ginocchio, lei disse andiamo alla fontana e con la mano appena bagnata cercò di guarire quella ferita che appena toccata scomparve. E poi di nuovo a nascondino, mentre lei rideva perché lui non riusciva a prenderla. Undici anni aveva lui, otto lei. Se avevano sete c’era la fontana, se avevano fame c’era la mamma che periodicamente si affacciava sull’uscio e guardava dove fossero e cosa stessero facendo. Lui si fermò nel suo correre, lei lo fissò senza sapere perché tutto si fosse fermato così. Lui mise una mano sullo stomaco e rivolse lo sguardo al cielo, e in quel momento sembrò perdere tutta quella innocenza che aveva avuto fino a poco prima. Aveva fame e di nuovo aveva sentito quella sensazione di sdoppiamento, come se la luna piena della notte prima fosse arrivata in ritardo. Lui le fece cenno di non avvicinarsi, e di andare via. Lei con i suoi occhi verdi fece cenno di no, e disse che non doveva avere paura. Lui aspettò rassegnato che quella mutazione facesse il suo corso, che il mannaro che era in lui si manifestasse, pregando che non facesse niente a quella ragazza che stava giocando lì con lui, perché avrebbe voluto ritrovarla in un futuro poi nemmeno troppo lontano.

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