Eventi

Sponz Fest Cronache 3. L’arte di curare Mapuche, 22 agosto 2018

23 Agosto 2018

Il posto dove aveva trovato riposo era alla base di un albero, uno di quelli all’estremità di quel vallone cupo presso cui tutto era cominciato. La musica e le voci dovevano essere continuate tutta la notte. E c’era anche chi, come lui, si era assopito in attesa dell’alba e della musica che ci sarebbe stata. Atmosfere dell’est, di paesi coma la Polonia, la Russia, la Slovacchia. I Balcani. Musiche danzabili, su cui muovere i passi con grazia, anche dopo una notte passata così. E asvegliarlo era stato un asino, aveva avvicinato la bocca alla sua per sentirne l’odore. Per sentirne il respiro. E lui quando aprì gli occhi non si aspettava di vederselo così vicino quell’animale, di averne il grugno a un palmo di mano dal suo viso. Avrebbe preferito sentire altri odori, ma questo gli era toccato e doveva tenerselo. Più in là vide alcuni Mapuche che stavano danzando in cerchio per dare il benvenuto al giorno che era appena sorto. Poi giunsero tutti le mani, insieme, e formularono una preghiera al buon dio della terra, invocando che ci fosse senno e prosperità per tutti. Accanto a lui ancora dormiva distesa la ragazza occhi verdi, quella della sera prima e dovevano essere caduti sponzati dopo il ballo, concedendosi poche ore di riposo. Notò subito che l’asino a lei non si era avvicinato.

Si alzò, anche per togliersi da quella situazione imbarazzante, e andò a unirsi al piccolo cerchio orante che si era appena sciolto. Il giorno ormai era pieno, e il caffè veniva servito a un piccolo chiosco allestito per la colazione. In pochi fino a quel momento avevano sentito la sua voce, anche con quella ragazza Mapuche c’era stata una grande abbondanza di gesti e di sguardi, ma poche erano state le parole. Poi si formò una piccola carovana di gente che dal vallone a piedi si stava avviando verso Calitri, molti avevano una camera in paese, e avrebbero provato a riposare qualche ora prima di buttarsi nelle attività in programma per il secondo giorno. Lui, invece, aveva casa lì, ci era nato, e ci aveva vissuto tutta quella sua porzione di esistenza. Aveva anche lui un letto a cui tornare, ma quel sonno da cui si era appena alzato gli sembrava sufficiente e preferì seguire la medusa dei suoi pensieri senza andarsi a coricare. A casa avrebbero capito, abituati come erano a quel suo vagare nottambulo, specie nelle notti di luna piena.

Calitri poggia su due costoni di terreno argilloso, al paese si sale dall’Ofantina e dalla strada dei pomodori, quella che va verso la Puglia, e che ogni estate percorrono i camion che li portano via dal raccolto. La parte più alta del paese poggia su un altare di roccia arenaria che si chiama Borgo Castello, e che è stata strappata di recente dall’incuria, da lì si può vedere tutto ciò che il paese presiede e la meraviglia dell’infinito. La mattina Calitri non sembra quasi esistere, la gente si sveglia abbastanza lentamente specie d’estate, perché la notte è facile restare fuori fino a tardi, e se non ci sono urgenze che senso ha mettere la sveglia? Verso le nove del mattino poi improvvisamente tutto si anima, e nei bar si accendono le macchine del caffè. Qualcuno tira fuori la prima sigaretta, e fuma con noncuranza. Qualche donna esce a sciacquare il marciapiede davanti casa, e ci sono bambini che vanno per i marciapiedi sotto lo sguardo attento dei genitori e dei nonni. Quando si sveglia Calitri è come una grande festa, perché tutti salutano, e tutti sorridono, e perché facessero così lui non lo aveva mai capito, aveva avuto sempre un carattere un po’ schivo e proprio per questo in quel paese non si era mai trovato a suo agio e nemmeno era si era mai più di tanto integrato.

Proseguì, camminando con questi pensieri nella testa, tutti quelli che erano con lui si erano già dileguati, la carovana si era sciolta, avrebbe ritrovato alcuni di loro nel corso della giornata. Intanto stava facendosi tutte le strade del paese, in un vagare da mannaro che era un vizio che aveva anche quando non c’era la luna piena. A dormire sdraiato sull’erba a notte fonda aveva ricavato anche un brutto dolore alla schiena e ogni tanto portava una mano dietro, tastandosi nel punto da cui partiva quel dolore che sarebbe stato meglio se non ci fosse stato. Dalla parte della Casa dell’Eca c’è una discesa che porta alle madonnelle e proprio lì stava per succedere qualcosa. C’erano persone che stavano andando da quella parte e quello era il segno, l’indicazione da non perdere. Si avvicinò rapidamente da quel lato, ero una dei primi, e notò in fondo al sentiero che stava facendo una piccola donna che stava trafficando con alcune erbe. Doveva essere un’altra Mapuche, decisamente più vecchia e trasandata della ragazza occhi verdi della sera prima.

Lui fece un gesto di saluto, lei fece cenno con la mano di avvicinarsi. Poi muovendo le dita di fronte alla bocca come per mimare qualcosa, lei provò a capire lui dov’era che aveva dolore. Lui mise la mano sulla schiena, esattamente nel punto in cui si era toccato prima. Lei prese un fiammifero e una volta acceso lo passò sopra l’impasto di erbe che aveva preparato e teneva in una ciotola lì di fronte. Dentro di essa immerse entrambe le mani che strofinò vigorosamente tra loro, poi le portò tutte e due sulla schiena di lui, massaggiando con calma. Lui sentì un calore di fiammifero esattamente nel punto in cui sentiva fastidio. Poi lei gli portò il pollice e l’indice dalla mano destra alla bocca e gli fece cenno di ingerire. Lui sentì sulla punta della lingua un impasto dal sapore acre e lo tenne fermò lì per un po’, poi si decise a buttarlo giù, e si rese conto di stare meglio.

Alla mente affiorarono altri ricordi, pezzi di quella sua esistenza che lo voleva doppio, uomo e mannaro, mannaro e uomo. E ricordò una sera in cui una donna aveva provato a guarirlo da quel suo sdoppiarsi. Era un ragazzo, avrà avuto quattordici anni, camminava come al solito in mezzo alla selva che arrivava già fino alla Cupa. Incontrò una donna che stava risalendo verso il paese. Portava della frutta quella donna, appena lo vide lo fissò in maniera magnetica, sembrava avere capito di chi si trattava, e del pericolo che rappresentava. Quella donna cercò di avvicinarlo offrendoli qualcosa dalla cesta che stava portano con le braccia. Lui scansò le sue mani con un gesto feroce. Lei allungò la mano destra e ne mise il palmo a contatto con la sua fronte, mentre pronunciava alcune formule che lui non aveva mai sentito. Lui si sentì venire meno, sentì quella forza che aveva scemare e si sedette da una parte, aspettando che quella donna finisse di guarirlo. Lei continuò con quelle invocazioni, aumentando di volume anche il tono della voce, lui cadde stremato e si addormentò, la mattina dopo giaceva sempre lì, ma sentì di essere un mannaro lo stesso.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.