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Sponz Fest Cronache 2. La ragazza occhi verdi, 21 agosto 2018
Il vallone cupo di Calitri in cui tutti stavano entrando non aveva recinto e la gente cercava in maniera ordinata un posto. C’erano alcune balle di fieno come sedute. La birra era già pronta, i ragazzi dietro al banco pure, qualcuno chiedeva anche qualcosa da mangiare, sulla piastra abbrustolivano pollo, altre carni e formaggio. Ovunque c’era odore di fieno. La musica di sottofondo era una taranta che veniva non si capiva da dove. Lui pensò che era perfetta per una situazione del genere. Erano appena le sette e mezzo, era appena piovuto, ma la serata sembrava essersi sistemata. Lui fece tutto il giro dello spazio allestito per quella prima serata di festa. Molte delle persone che erano all’interno del tenimento si stavano concentrando attorno ad alcune figure dai caratteri insoliti, gente che di europeo sembrava non avere proprio niente. Qualcuno provava anche a fare loro delle domande. Erano dei Mapuche, gente della Patagonia, arrivati fino in Italia per quella festa che traeva origine dai riti dello sposalizio. Stavano intonando un canto che sembrava squarciare il velo del tempo, ipnotico e vitale allo stesso tempo. Una cosa che non aveva parole, ma era fatta solo di versi della bocca, e suonavano trompe, la pifirca, la trutruca, il kultrun e la wasa.
Al calare del sole accesero un fuoco, e si formò un piccolo cerchio di gente attorno a quella musica selvaggia, poche persone che si tenevano per mano e che cominciarono a ruotare in senso antiorario. Procedevano lentamente, cercando di fare da mezzo di contrasto al tempo e al suo scorrere incessante. Il capo Mapuche, il lonco come lo chiamavano loro, stava al centro e lasciava che la sua bocca continuasse a produrre dei suoni che anche lui non aveva mai sentito prima. A tratti sembrava stesse dicendo cose in latino, greco e aramaico messi insieme, e se quella lingua che stava producendo con la bocca esisteva, doveva esssere certamente antica, una che dovevano ormai conoscere davvero in pochi. Lui osservava tutto dall’esterno del cerchio, ma nello stesso tempo sentiva come qualcosa che lo attirava dentro, una piccola gravità a cui non sapeva ancora per quanto avrebbe potuto resistere. C’era un vento che soffiava da est, uno di quei venti che asciugano tutto, e che d’estate arrivano spesso su quelle terre dell’osso.
Apparì anche un violinista, che si unì al canto che intonavano i Mapuche. Sembrò venire fuori dal niente e suonava seguendo esattamente il tempo del canto e delle mani. Suonava deciso, pizzicava, saltellava con l’arco sulle corde, muoveva tutto il dorso a tempo, e riusciva a fare flettere quelle budella sullo strumento, mentre muoveva le mani in maniera asimmetrica. La gente intorno partecipava a quel canto improvvisato. E lentamente a quel cerchio si unirono altre orbite di gente, altre costellazioni che si aggiungevano al rito. C’era uno che ogni tanto gridava delle frasi che sembravano uscire da qualche testo sacro, e che sembrava avere bevuto già abbastanza. Quel cerchio che si era fatto via via sempre più grande continuava a procedere in senso antiorario, per cui cambiare improvvisamente verso. Orario e antiorario. Antiorario e orario. Orario e antiorario. Al capo Mapuche, che stava sempre al centro, si aggiunsero altre due persone, poi lentamente altri ancora.
Lui sentì una strana sensazione alla testa, esattamente la stessa che precedeva tutte le sue trasformazioni, ma mancavano ancora cinque giorni alla luna piena e sapeva che quello non poteva essere. Poi sentì una mano che si avvicinava alla sua, e percepì tutta l’energia che poteva sprigionare la presenza improvvisa di una donna. Ne cercò il volto, ne vide gli occhi verdi, pronti, che lo invitavano alla danza, e a non restarsene da una parte. Cercò di rilassare il braccio che aveva avuto quel primo contatto. Lei aveva la carnagione scura e almeno venticinque anni di età, i capelli neri lunghi fino alla schiena. Occhi riflessi verdi. Si muoveva in maniera elegante, profumava di bosco, e i piedi, scalzi, perfetti, se ne stavano a contatto con quella terra su cui avevano cominciato a danzare. Lui, subito dopo il braccio, sentì sciogliersi tutte le altre articolazioni, le gambe in particolare, e cominciò a ballare come non aveva mai fatto prima.
La musica si fece più forte, c’era gente che stava muovendosi sul palco che era stato allestito proprio dal lato in cui in sole era cominciato a tramontare. Vari percussionisti presero il loro posto. Adesso si sentiva musica elettronica, ritmi tribali e le parole gridate di Antonio Infantino, uno che con la mansuetudine sembrava non avere proprio niente a che fare. Quelle musiche tribali sembravano poter andare avanti tutte la notte, e c’era gente che ballava a saltava dappertutto. Tutti erano vicino al palco che era stato allestito per ospitare tutti i gruppi della prima notte dello Sponz. Lui ormai era uno di loro, uno di quei giovani arrivati da tutta Italia per partecipare a quel rituale. La ragazza occhi verdi gli era ancora accanto, la sua mano era calda e trasmetteva un’energia che non aveva mai sentito prima. Era lei dalle prime file a dare il tempo a tutti, lei che cominciava per prima a percepire il cambio di passo e l’incedere del ritmo. Cantava a voce più alta quasi dovesse lanciare un grido di guerra e accertarsi che tutti i soldati fossero pronti per andarle dietro.
Sentì la mano di lei che lo tirava da una parte e che lo faceva passare sotto le braccia di quelli che avevano appena formato una catena. Lui si fece trascinare. Vide che tutti continuavano a muoversi intorno, e scoprì di essere arrivato al centro del tenimento, e il capo Mapuche, quella donna che chiamavano il lonco, gli stava di fronte. Quella donna doveva essere la madre della ragazza, gli fece un inchino a cui lui rispose con un altro inchino. Era vestita anche troppo pesante per quel periodo dell’anno, aveva un copricapo e una mantella che di feltro che portava con atteggiamento regale. Tutti battevano le mani a tempo. Poi il capo Mapuche prese da una tasca della mantella che indossava un sacchetto contenente della sabbia e delle erbe, ne prese un po’ nella mano destra, e se la portò al naso nel gesto di annusarla. Subito dopo strofinò quella sabbia di erbe tra le mani e annusò nuovamente entrambe. Poi le allungò verso il viso di lui fino a carezzarne le gote e a spalmare quell’impasto sul viso di lui che era già caduto in trance.
A lui sembrò di vedere una luna grande, così grande che difficilmente si sarebbe potuto spiegare come fosse potuta diventare così. Si ricordò di una volta quando era bambino, erano passati giusti ventotto giorni dall’episodio della sua prima luna piena, e cercando di scappare di casa era finito nel bosco, quello che chiamavano di Zampaglione, e lì si era messo a correre, poi era inciampato cadendo a terra. Ricordò di essere rimasto in quella posizione solo pochi minuti, e al risveglio, aprendo gli occhi, si era trovato davanti una luna che riempiva buona parte della notte e che non poteva fare a meno di guardare. Sul braccio aveva due piccoli punti rossi da cui stavano uscendo due gocce di sangue. Qualcosa lo aveva morso, qualcuno lo aveva morso. Sentì una strana sensazione alla stomaco, una specie di fame ancestrale, fame di qualsiasi cosa che gli fosse capitata sotto tiro. E sentì al contatto della lingua i denti farsi più aguzzi. Poi improvvisamente si addormentò, al suo risveglio aveva solo la certezza che qualcosa in lui doveva essere davvero cambiato.
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