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Sponz Fest Cronache 1. Il sogno del pumminale, 27 agosto 2018

20 Agosto 2018

L’umidità della notte non sembrava volere andare via. Tutto intorno la luce stava cominciando a diffondersi in modo strano, e lui aveva nelle mani solo la sensazione di ciò che non era riuscito a afferrare. Ovunque volavano cartacce, che quel vento che veniva dal basso sollevava insieme a una sensazione di inutilità, adesso che tutto era finito. La luna piena della notte prima aveva fatto un’altra volta il suo lavoro. E la sensazione che qualcosa stesse per sfuggirgli era cominciata dalla mani, su cui si era cominciato a diffondere prepotente la solita peluria che nel giro di poche ore sarebbe andata via. Le unghie si erano cominciate a inarcare e quello era il segno che la metamorfosi era compiuta. E poi quelle zanne al posto dei canini. Chi lo aveva assoldato sapeva che lo spettacolo sarebbe sicuramente riuscito. E così fu, quella grande baldoria finale venne benissimo, e non si erano mai visti tanti strumenti suonare insieme, mentre lui stordito ballava vorticando su se stesso, e la gente gli batteva le mani, e più le battevano più lui non riusciva a fermarsi, fino a provocarsi uno stordimento che sarebbe durato per vari giorni.

La testa gli pulsava nelle mani e anche tenersela stretta non serviva a niente. L’unica posizione in cui poteva resistere era sdraiato, faccia a terra, e l’odore delle foglie bagnate che gli arrivava al naso era come un balsamo che avrebbe voluto spalmarsi addosso pur di far cessare quella sensazione di essere fuori baricentro, mentre si augurava che tutto passasse alla svelta. Perché uscire e rientrare in sé era dura ed era quello il prezzo da pagare per la metamorfosi. E alla luna lui non poteva scappare, nemmeno fosse stata dietro alle nuvole poteva scappargli. E gli tornò a mente la prima volta che aveva sentito quella sensazione, e il suo corpo era cominciato improvvisamente a cambiare. Era una notte in cui l’astro minore non si poteva evitare, perché comunque gli occhi ci dovevano sbattere contro tanto era grande. E lui aveva lasciato quella mano che lo teneva, perché sentiva qualcosa chiamare, e qualcuno bussare. Era appena finita una festa da ballo in paese, una di quelle che fiorivano spontanee come margherite nelle notti d’estate nel centro storico di Calitri. Otto anni non ancora compiuti, e se ne stava andando per mano con sua mamma, stavano per tornare a casa. Poi la mano di lei era scivolata via, ed era rimasta solo la luna a fargli compagnia, e quel sentiero che si faceva sempre più stretto, e acciottolato. Nelle scarpe il piede che gli scivolava in avanti e la strada che sembrava andare solo e sempre più giù. E sentì per la prima volta quell’idea di appartenere ad altro, di non avere più una famiglia e una discendenza, e di doversi misurare con qualcosa di molto diverso da sé, con un doppio.

Negli anni successivi, tutte le volte che la metamorfosi stava per avvenire, la sensazione sarebbe stata sempre quella lì. E si sarebbe sentito di non potersi più appartenere nelle intenzioni e nei desideri, con un fisico che non riusciva più a controllare e che gli cresceva stava comunque addosso. E ciò avveniva tutte le notti di luna piena a lui, e a tutti quelli nati in una di quelle notti di Natale in cui la luna era bianca nel cielo. Mannari, così erano chiamati, gente da cui stare alla larga, specie quando subivano quella trasformazione che poteva mutarli in lupi. E ancora peggio in maiali, in una regressione dell’esistenza senza apparente punto di arresto. E da allora, da quando aveva otto anni, e in paese ancora si celebravano feste di matrimonio a quel modo lì, tutte le volte che la luna esplodeva nel cielo, a lui toccava sempre la stessa sorte, e adesso che di anni sulla pelle ne potava contare trenta e forse più, avrebbe volentieri rinunciato a quella sua doppiezza, pur di stare dentro un canale sicuro, percorrendo una strada certa.

E quella mattina che la festa era appena finita e il giorno era arrivato, pensò che oltre lui erano stati davvero in tanti a officiare il rito, tra canti e danze propiziatorie. E c’era chi era arrivato fino dalla Patagonia, come i Mapuche, l’unica popolazione indigena riconosciuta dagli europei come ‘nazione’, perché alla fine gli europei stessi non sono mai riusciti a conquistarla. Genti indigene che vivono ancora secondo le leggi della loro economia e si curano con soluzioni preparate mescolando elementi della natura. Unici esponenti di una scuola di resistenza di cui si potevano ancora imparare i segreti in alcuni laboratori che erano stati organizzati nel corso di quella festa selvaggia adesso compiuta. E lui che vi aveva partecipato, adesso era come in uno stato di trance, questa era la sensazione che stava provando, ripensando ai giorni che aveva vissuto. L’altra metà di sé, quella buona e civile, quella che conoscevano tutti, quella fatta di tanti buongiorno-buonasera e di lavoro, aveva trascorso tutti i giorni di quella festa tra vicoli e rifugi. E erano stati giorni di musica selvatica e di note che solo immerse nella natura potevano risuonare davvero. Erano stati giorni di notti selvagge, a scorrazzare per grotte tra incanti di musica e vino. Giorni di un futuro che per lui nessuno aveva ancora disegnato, ma in cui si era trovato immerso, e irretito. Giorni in cui era stata ancora più forte quella sensazione di essere doppio, e di poter vivere due vite contemporaneamente, e mille esistenze in una sola.

Aveva ancora tutte queste cose per la testa e gli odori sulla pelle, il pelo era quasi scomparso e le unghie si erano rimodellate nella loro normale fisionomia. Era come se niente fosse avvenuto. A lui restava solo un forte profumo di selvatico addosso, come in un sogno. Rivide ancora la sua immagine che danzava turbinante su quel palco, e tutte le facce di quelli che battevano la mani a tempo. Dentro quella selva in cui si trovava provò a fare un ultimo giro su se stesso, mentre il sole cominciava ad alzarsi nel cielo, e fece tutto battendo da solo le mani, come a darsi il tempo. E gli sembrò di vedere un uomo che stava suonando un violino lì vicino a lui. Al suono di quella musica sentì delle evoluzioni dentro, e un solletico dolce allo stomaco, e dopo poco cadde a terra, preso da un sonno che lo riportò indietro al primo giorno di quella festa, al momento esatto in cui si ricordava solo di avere fame e di non riuscire a trovare niente da mangiare. Il vino invece non mancava. Suona ancora, stava pensando, rivolto al ricordo di quell’uomo che per tutti in paese aveva sempre suonato il suo violino.

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