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Siae, anche quest’anno non quadrano i conti dei diritti d’autore

26 Gennaio 2016

Un milione di euro e poco più. Il bilancio previsionale della Siae per il 2016, pubblicato sul sito dell’ente pubblico che tutela il diritto d’autore e ne gestisce la raccolta e la ripartizione dei proventi, torna a indicare numeri allarmanti. Gli utili finali derivanti dalla compensazione tra i ricavi (184,2 milioni di euro), i costi della gestione ordinaria (172,5 milioni) e le spese di gestione strategica (9,92 milioni, in questa voce confluiscono le quote di ammortamento degli investimenti, le consulenze e le attività promozionali) sono di nuovo in bilico, a poco meno di cinque anni dal commissariamento ordinato dal governo nel marzo 2011 della società che opera in Italia come copyright collecting agency monopolista.

Scriviamo monopolista perché, a fronte delle intenzioni manifestate dalla UE sino dal 2012, la società fondata nel 1882 a Milano da un gruppo di editori e autori cui appartenevano Treves, Loescher, Verdi, Carducci, De Sanctis, Verga e De Amicis, continua a operare come unico soggetto di intermediazione del diritto d’autore su territorio italiano, in virtù da un lato della frammentazione geografica che costringe tuttora gli utilizzatori di contenuti protetti da copyright a negoziare Paese per Paese gli spezzoni locali del diritto, invece che poterlo acquistare one shot da una qualsiasi collecting (dunque un monopolio di fatto), dall’altro il nostro ordinamento stabilisce con l’articolo 180 della Legge 22 aprile 1941 n. 633 che l’attività suddetta di intermediazione del diritto d’autore sia riservata in via esclusiva alla Siae.

Tornando ai risultati economici, chi conosce lo scarto tra il previsionale 2015 e il pre-consuntivo di fine anno – laddove il primo indicava un avanzo di 7,3 milioni di euro, e il secondo riduceva la voce a 2,6 milioni – non può che paventare il rischio di uno scivolamento del conto economico in zona rossa. Il consuntivo 2014 era stato di 3,4 milioni di utili, quello 2013 di 1,6 milioni, a fronte però di 10 milioni spesi per la riorganizzazione aziendale a supporto del nuovo piano strategico. I numeri sono insomma su di un piano inclinato, e a poco è valsa in questo senso la bonifica dei costi strutturali effettuata durante la gestione commissariale, attraverso la revisione dei contratti dei dipendenti e l’eliminazione di molti sprechi, così come la razionalizzazione del patrimonio immobiliare, che è stato conferito a una società di gestione risparmio. Siae continua infatti a incassare troppo poco rispetto a quanto spende, e questo squilibrio spinge la Società di Autori ed Editori a una pesante azione di lobby sul legislatore e sulla politica, al fine di consolidare le proprie entrate, attraverso nuove concessioni, la cui equità e congruenza con la mission originaria dell’ente costituisce un tema caldo all’interno della questione dell’adeguamento alla riforma del diritto d’autore che si prepara a livello UE.

Ma vediamo anzitutto di far luce sui numeri. Gli attuali incassi legati al diritto d’autore ammontano a 574 milioni di euro, di cui 433 mln legati alla musica, 64 mln al cinema, 15 dalle opere letterarie e artistiche e 60 dalla sezione DOR, un calderone in cui confluiscono i compensi maturati dal diritto sulla rappresentazione scenica e il passaggio radiotelevisivo di opere liriche, di prosa, con musica e no, le produzioni per bambini, gli spettacoli di burattini e marionette, il cabaret. A questi si aggiungono i 120 milioni derivanti dalla cosiddetta copia privata. La sopracitata Legge 633/1941 prevede infatti la possibilità di fare una copia personale su qualsiasi supporto di fonogrammi e videogrammi, purché non vi sia scopo commerciale o di lucro, e nel rispetto di misure tecnologiche di protezione. Viene stabilito inoltre un meccanismo di compensazione che prevede un contributo corrisposto alla Siae nella misura di una quota del prezzo di listino di ogni dispositivo adatta alla registrazione audio o video. La quota viene stabilità dal Ministero per i Beni e delle Attività Culturali.

Nella fase storica di decremento dei proventi diretti del diritto d’autore, per contrazione del consumo di musica e cinema su supporto registrato, si è fatta sempre più pressante da parte dei detentori del copyright la necessità di rideterminare le tabelle relative alla copia privata. Nel 2009 le tabelle introdotte con il recepimento nel 2003 della Direttiva Europea del 2001 sono state modificate una prima volta, con l’estensione a quegli strumenti, come le chiavette USB o le schede di memoria, che prima non erano incluse. Dopo un braccio di ferro estenuante tra la Siae, che voleva ritoccare sensibilmente le cifre del compenso, e il ministro Massimo Bray, che si è opposto sino a quando ha mantenuto l’incarico, il nuovo responsabile del dicastero dei Beni Culturali Franceschini ha acconsentito a rivedere le tabelle, con il Decreto Ministeriale del 20 giugno 2014. Con quell’atto legislativo si è di fatto stabilito un incremento delle tariffe superiore al 100% e non corrispondente a un aumento dell’utilizzo della copia privata.

Come l’indagine commissionata a Quorum dallo stesso ministro Bray dimostrava, la crescita delle piattaforme di streaming aveva già cambiato radicalmente le abitudini di consumo degli Italiani, tra i quali solo il 13,5% ricorreva (usiamo il passato perché è ragionevole pensare, in assenza di dati più aggiornati, che la percentuale si sia ulteriormente contratta) in modo sistematico alla copia privata. Non contenta, Siae ha ottenuto nelle pieghe dell’ultima Legge di Stabilità di vedersi attribuire dal Mibact una quota ulteriore del 10% del totale dell’equo compenso raccolto, da utilizzare in attività promozionali. Nel previsionale, alla voce dei ricavi dai diritto d’autore, quote sociali, provvigioni su incassi per diritto d’autore e il rimborso spese copia privata sono accorpati (l’aggregato vale 109 milioni di euro, con una crescita anno su anno dell’1,2%), in modo che non sia possibile sapere esattamente quanto Siae trattiene dell’equo compenso e quanto ripartisce invece agli aventi diritto. Teniamo però presenti due termini di grandezza: secondo la Cisac, ossia l’associazione che riunisce le varie collecting nazionali, nel 2014 sono stati raccolti a livello mondiale 314 milioni di euro di copia privata. La relazione della commissione parlamentare francese incaricata di rimettere mano alla disciplina transalpina in materia dice che in Italia la cifra corrispondente per il 2015 è di 157 milioni (un dato né confermato né smentito da Mibact e Siae).

C’è però un altro aspetto da tener presente: la lentezza con cui Siae ripartisce i compensi agli aventi diritto. Lentezza che le consente di tenere in pancia le somme raccolte, maturando cospicui interessi su di esse. Facciamo un esempio: negli ultimi mesi sono stati ripartite le cifre relative all’equo compenso spettante ad attori di cinema e Tv per gli anni 2012/2013 (con un lungo contenzioso su cui torneremo in seguito). Dunque occorrono almeno due anni perché le cifre vengano ridistribuite: in questo senso, meno la società di gestione è puntuale e più guadagna. Alla voce del bilancio previsionale relativa alla gestione finanziaria, si legge che “le somme rimangono nella disponibilità dell’azienda per il tempo necessario alla ripartizione. In tale ambito occorre considerare che la Siae, a differenza di quanto generalmente avviene in altri Paesi, opera anticipi e quindi addirittura non aspetta ma precorre, appunto, i tempi di ripartizione”. Ma nel contempo si apprende che il saldo alla fine di quest’anno sarà in attivo per 13,7 milioni milioni di euro, con una flessione di 10 milioni (- 42,3%) rispetto al risultato del 2015, allorché si è beneficiato di un “rilevante saldo positivo tra plusvalenze e minusvalenze (pari ad oltre 11 milioni di euro) correlate alla vendita di investimenti finanziari sottoscritti negli ultimi esercizi”. Perché e in che modo (ossia con che risorse) un ente che dovrebbe occuparsi di tutela e gestione del diritto d’autore faccia operazioni che incidono in questa maniera sull’andamento del suo conto economico non è chiaro. Ma una della scelte strategiche maturata durante la gestione commissariale è stata proprio spostare quote sempre maggiori di liquidità dalla disponibilità degli aventi diritto, attraverso la costituzione di Fondi.

Nel 2011, dunque nella fase in cui i commissari hanno iniziato a rivedere il modello gestionale dell’ente assieme al direttore generale Gaetano Blandini, ci si è accorti che il fondo pensioni aveva investito al 100% in immobili, il che produceva costi annuali per 7,5 milioni di euro. Si è deciso allora di conferire quel patrimonio all’interno di due fondi, “Aida” e “Norma”, con un’operazione gestita dal gruppo Sorgente. Il Corriere della Sera pubblicò  un articolo in cui si parlava esplicitamente di “dismissione per un valore che potrebbe essere addirittura la metà di quello reale”: 180 contro 360 milioni di euro. E si ricordava che nel 2010 il fondo pensioni aveva determinato nel consuntivo di bilancio una perdita pari a 18 milioni di euro. Quel pezzo non diceva, però, che le quote di quei fondi restavano al 100% di proprietà della Siae, la quale aveva così individuato una risorsa economica in cambio del patrimonio immobiliare. Risorsa con cui avrebbe pagato il premio unico dovuto per la stipula di una polizza assicurativa in forza della quale sarebbero stati corrisposti dall’aprile 2013 in poi in forma di rendita gli importi necessari a erogare le prestazioni pensionistiche dovute.

A seguito delle precisazioni della direzione generale e dei commissari sui contenuto di quell’articolo, il quotidiano affidò ad alcune delle sue firme migliori (tra cui Gian Antonio Stella una serie di pezzi affidati ad alcune delle sue firme migliori, in cui si raccontavano gli aspetti per molti versi grotteschi della vecchia gestione Siae rispetto alla quale i commissari stavano mettendo mano: l’indennità di penna, concessa a tutti quei dipendenti che erano dovuti passare dall’utilizzo della biro al computer, gli elenchi di nomi accompagnati dal grado di parentela coi dipendenti, da assumere dunque per chiamata diretta, il contratto di lavoro degli ispettori, che prevedeva per coloro che dovevano andare nei locali a svolgere gli accertamenti tecnico/musicali l’inizio del turno serale alle 13:45 e di quello notturno alle 20:57, in modo da consentire di cumulare straordinari da capogiro e maturare due giornate di lavoro in un colpo solo. Folclore, come nel caso di un dipendente che nel 2010 aveva lavorato 389 giorni, cumulando 31 giornate di ferie, 6 di ex festività soppresse e 17 di recupero festività, per un totale di 445 giorni e 54mila euro di straordinari.

Sulla scorta di queste notizie venne anche aperta una commissione parlamentare d’inchiesta, che si concluse, come tradizione, con un nulla di fatto, naturalmente dopo aver prodotto una quantità di carta sufficiente a riempire una libreria. Il punto sostanziale stava da un’altra parte. A determinare il commissariamento (che torna ciclicamente nella storia di Siae), non erano state le difficoltà economiche, ma una crisi irreversibile nell£assetto degli organi sociali. Nel novembre 2010 l’assemblea che doveva approvare il bilancio preventivo 2011 era andata deserta, costringendo il presidente, l’avvocato capitolino Giorgio Assumma, a dimettersi con ben due anni e mezzo d’anticipo.

Dietro a questa scelta obbligata, c’era la volontà dei maggiori editori musicali di imprimere una svolta oligarchica alla struttura della società, concentrando le leve decisionali in poche mani. Svolta che è avvenuta nel 2013 per mezzo di elezioni in cui si è votato per censo, come nelle società per azioni, e a cui hanno partecipato solo 567 aventi diritto, raccogliendo 2.500 deleghe, contro i circa 70mila iscritti al momento del voto alla sola sezione musica. Possiamo in tal senso discutere sull’utilizzo che in una determinata fase della nostra politica nazionale – coincidente con la presenza di Gianni Letta alla segreteria della Presidenza del Consiglio – si è fatto dei commissariamenti (vedi anche il caso del Maxxi), e di come alcune di quelle operazioni viste retrospettivamente potevano essere evitate. Quando però Siae è tornata alla gestione ordinaria, lo ha fatto tagliando fuori dall’associazione la base, e diventando una strana entità in mano alle case discografiche e a un numero ristrettissimo di grandi artisti (e non a caso il primo presidente dopo il commissariamento è stato Gino Paoli e il secondo Filippo Sugar). Può davvero considerarsi pubblico un ente che opera così?

Di fatto è il legislatore ad aver sancito quest’identità spuria, allorché, nella norma del 2008, ha stabilito che Siae è sì un ente pubblico economico a base associativa, che opera però sulla base delle norme del diritto privato. La sua funzione istituzionale si esplica come dicevamo in precedenza nelle attività di intermediazione per la gestione dei diritti d’autore, attraverso la concessione delle autorizzazioni per l’utilizzazione delle opere protette, la riscossione dei compensi e la ripartizione dei proventi, non solo su territorio nazionale, ma anche all’estero, attraverso le società d’autori straniere con le quali ha stipulato accordi di rappresentanza. Dunque tutela a tutti gli effetti un interesse costituzionale e tuttavia è esclusa completamente dalla finanza pubblica. Identità spuria che si riverbera anche nell’esercizio di una serie di attività che non riguardano in nessun modo la missione di società di gestione collettiva di diritti d’autore, e che si situano a metà strada tra la prebenda e il parastato.

Gino Paoli, eletto presidente Siae a conclusione della fase commissariale
Gino Paoli, eletto presidente Siae a conclusione della fase commissariale

Alle entrate di Siae si aggiungono infatti 32 milioni di euro derivanti da servizi in convenzione, resi all’Agenzia delle Entrate, ai Monopoli di Stato o al noleggio cinematografico. Attività per cui si avvale del proprio know-how di “esattore”, mentre perdono sempre più di importanza e peso economico le vecchie funzioni che l’ente era chiamato a garantire, come la vidimazione del contrassegno (il famoso “bollino”), al centro negli ultimi anni a sua volta di contese legali, perché considerato alternativamente un’essenziale strumento a tutela dalla pirateria o, più semplicemente, una tassa. Inutile aggiungere che senza i servizi in convenzione, ciò che trattiene per la copia privata e le attività finanziarie basate in parte sull’impiego dei compensi in attesa di ripartizione, Siae sarebbe in rosso per una cifra quantificabile in oltre 50 milioni di euro e dunque da tempo nuovamente commissariata.

Nell’esercizio delle attività principali, peraltro, gli uffici Siae non brillano.  Prendiamo il caso dei diritti connessi di artisti, interpreti ed esecutori. A valle del diritto d’autore esiste infatti un sistema di diritti secondari, che non si esauriscono con esso, e che vanno compensati ogni volta che una determinata opera ha un pubblico utilizzo, sia esso la trasmissione televisiva, la vendita e noleggio dvd, la diffusione in luoghi pubblici tramite televisione, messa a disposizione del pubblico via web, e così via. La compensazione è dunque legata all’utilizzo (e anche la copia privata ricade sotto questa fattispecie) e veniva gestita sino alla sua liquidazione da un’ente di origine sindacale, l’Imaie, che, in base ad accordi/quadro stipulati con gli organizzatori raccoglieva l’equo compenso e poi lo ripartiva agli aventi diritto (non con grande efficacia, se è vero che negli anni le cifre non ridistribuite hanno fatto si che si accumulasse un tesoretto che al momento della liquidazione era superiore ai 100 milioni di euro).

Con la liberalizzazione effettuata in sede di Legge di Stabilità dal Governo Monti, si è aperto il mercato a tutte le società di intermediazione che in virtù dei mandati raccolti tra gli artisti hanno accesso alle cifre relative all’equo compenso. Il legislatore si è in tal senso limitato ad affermare che la ripartizione è basata esclusivamente sul numero di mandati raccolti da queste collecting agency, e ha assegnato a Siae il compito di controller del processo. Nel già citato caso della ripartizione dell’equo compenso cinema e Tv per 2012 e 2013, al momento di suddividere le cifre (11 milioni di euro) tra le due società di gestione collettiva riconosciute (Nuovo Imaie e Associazione 7607), nessuno si è preoccupato del fatto che uno dei due elenchi dei mandati (quello dell’Associazione 7607, che vede tra i propri fondatori gli attori Elio Germano, Neri Marcoré e Claudio Santamaria) avesse nomi e cognomi sbianchettati (senza che per questo Siae l’abbia giudicata irricevibile), e, allorché su richiesta accolta dal Consiglio di Stato i nominativi sono stati resi palesi, presentasse, come ha confermato una sentenza in data 24 dicembre il Tribunale di Roma, duplicazioni e inserimenti indebiti di circa 400 aderenti alla società “avversaria” (il Nuovo Imaie). Così, ogni nome inserito indebitamente nell’elenco avrebbe fruttato  circa 2mila euro in più per la società di raccolta.

Ma al di là dei questi incidenti non banali, Siae continua comunque a costare tanto. Non c’è razionalizzazione delle spese che tenga. I costi complessivi, tra gestione ordinaria e strategica, sono di 182 milioni di euro, con un delta 2016/2015 dello 0,05%, che attesta l’incapacità di comprimere ulteriormente le due voci più onerose: personale (86 milioni di euro, in diminuzione dell’1,8%) e servizi (69,5 milioni, in contrazione dell’1,2%). Se andiamo a recuperare i bilanci pre commissariamento, si apprezza che nel 2010 le spese correnti erano state di 182 milioni, nel 2009 di 186, nel 2008 di 187, nel 2007 di 185 e nel 2006 di 173. Tutti dati di fatto simili all’attuale (nell’ambito di una serie storica-è giusto ricordarlo-in cui solo il 2006 e 2007 si sono chiusi con un utile), con scostamenti, se si eccettua il primo anno preso in esame, poco significativi.

Possono insomma cambiare presidente, direttore generale (e in questo articolo abbiamo volutamente evitato di riferire gli scivoloni di Paoli e dello stesso Blandini, allorché era direttore generale Cinema del Mibact, così come non ci siamo soffermati sull’entità dell’emolumento del dg, scartando il gossip giudiziario e le valutazioni arbitrarie sugli stipendi), assemblea, statuto, organi di sorveglianza e revisori, ma i costi gestionali di quello che non possiamo nemmeno definire un carrozzone di Stato ( perché tale non è sotto il profilo giuridico) restano invariati. E se effetti disastrosi della liberalizzazione dei diritti connessi sconsigliano a oggi l’apertura al mercato della gestione del diritto d’autore, forse la politica dovrebbe prendere in seria considerazione l’ipotesi di riprofilare il campo delle attività che svolge nell’ambito di quanto prescritto dalla Legge 633. Anche attraverso una riscrittura della stessa: al di là della paventata riforma del diritto d’autore a livello UE, l’impressione è che la riflessione nel nostro Paese sia ancora molto indietro. L’alternativa è attendere il commissariamento prossimo venturo. Quello che neppure l’applicazione dell’equo compenso alla macchina da caffè potrà evitare…

 

 

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