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Se la Cultura fa lobby a favore delle fondazioni nelle banche
Qualche giorno fa, alla vigilia della prima della Scala, tre nomi di peso delle istituzioni culturali italiane si sono scagliati contro il governo per una norma della legge di stabilità che fa decadere un privilegio fiscale delle fondazioni bancarie relativamente alle storiche partecipazioni negli istituti di credito. Nella lettera aperta al premier Renzi, pubblicata dal Corriere della Sera, il presidente del Fai Andrea Carandini, il direttore del Piccolo Teatro di Milano Sergio Escobar e il sovrintendente del Teatro alla Scala Alexander Pereira dichiaravano addirittura «sommo allarme» per la sopravvivenza delle istituzioni che rappresentano. Colpa del «progetto di sottrarre ogni anno alle Fondazioni di origine bancaria una somma di oltre 170 milioni di euro già a partire dal 2014 a causa di una nuova devastante tassazione che porta l’imponibile tassabile dal 5% al 77,74 per cento». Un aumento definito dagli stessi «tanto macroscopico da apparire inverosimile, o peggio, indotto da una volontà punitiva».
Nella vicenda, però, di inverosimile e macroscopico c’è solo l’acritica adesione di personaggi del calibro di Carandini, Escobar e Pereira alle tesi delle fondazioni bancarie. Comprensibile la preoccupazione per l’impatto della norma: nel 2013 le fondazioni bancarie hanno erogato 885 milioni di euro per finanziare le attività correnti di associazioni, enti filantropici e culturali. Ma tra questo e farsi portavoce degli interessi dell’Acri (la lobby delle fondazioni), ne corre.
Il grosso dell’aumento della tassazione era già avvenuto sei mesi fa, quando l’imposta sostitutiva sulle rendite da investimenti finanziari (i.e. gli interessi pagati da un’obbligazione), è stata portata al 26% (dal precedente 20%) con decorrenza da luglio scorso, con l’eccezione dei titoli di stato (12,5%). L’Acri, la lobby delle fondazioni, stima che il prelievo fiscale a carico dellefondazioni salirà da 170 milioni di euro del 2013 a 360 milioni del 2014.
Ora, certamente si può, e anzi si deve, discutere della svolta fiscale repressiva avviata da Monti e portata avanti da Renzi. Come pure degli effetti retroattivi delle novità introdotte: l’ennesimo segnale di inciviltà fiscale che lo Stato italiano riserva ai contribuenti, siano essi enti non commerciali, società o persone fisiche. Ma ciò che davvero ha fatto salire il sangue agli occhi dell’Acri e del suo presidente Giuseppe Guzzetti è un’altra cosa.
Finora, infatti, il 95% dei utili percepiti dagli enti non profit (e fra questi, i dividendi pagati dalle banche partecipate) erano infatti esenti dall’Ires (aliquota 27,5%). Con l’articolo 3, comma 27, del ddl Stabilità (si veda la nota esplicativa del Senato, pag. 296) l’esenzione si riduce al 22,26 per cento. Di contro la parte tassabile sale al 77,74 per cento. Vuol dire che su 100 euro di dividendi percepiti, prima le fondazioni pagavano 1,375 euro di Ires (=27,5% x 5%), adesso ne pagheranno 21,38 euro (ovvero il 27,5% del 77,74%).
L’aumento c’è e si vede, ma meno “macroscopico” di quanto si voglia far credere. Volendo, si potrebbe evitare in modo legale: vendendo le quote nelle banche e comprando Btp, che godono di aliquota fiscale favorevole. Qualcosa ci suggerisce, però, che non accadrà. Le fondazioni preferiranno conservare fino all’ultimo quanto hanno di più caro: il potere sulle banche, esercitato appunto tramite le loro storiche partecipazioni, che consentono fra l’altro di influire sulla nomina dei vertici. Con tanti saluti alla Cultura.
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