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Il Festival di Sanremo e quell’Italia che ha disperata voglia di trasgressione

13 Febbraio 2023

Dal punto di vista dell’Auditel, il Festival di Sanremo, tanto criticato da certa politica, è stato un successo: ben il 66% di share, apparentemente il miglior risultato dal 1997. Io sono uno di quegli italiani che, per varie ragioni, non ha visto il Festival, ma come tutti sono al corrente delle highlights grazie a giornali, telegiornali, conversazioni con familiari e conoscenti che invece non si sono persi un minuto dell’evento, social media. Sembra che alla destra italiana questo Festival non sia piaciuto. Le dichiarazioni del ministro Matteo Salvini, e di altri esponenti della maggioranza, ne sono un’eloquente dimostrazione. Per il Corriere della Sera anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni non avrebbe gradito alcuni episodi.

Devo confessare che pure a me questo Festival, da quel poco che ne so, non ha entusiasmato (in particolare non ho apprezzato gran parte delle canzoni che ho recuperato su YouTube); è anche vero che ascolto quasi esclusivamente musica classica strumentale, e so pochissimo di musica pop, che istintivamente non amo (con alcune eccezioni). I dati Auditel suggeriscono però che gli italiani abbiano apprezzato.

E secondo me il dato interessante è proprio questo: i 12-14 milioni di italiani rimasti incollati allo schermo della serata conclusiva del Festival. Merito soltanto delle canzoni? Non credo. Molti di coloro che hanno seguito il Festival sabato avevano già sentito le canzoni nei giorni precedenti, non solo in TV ma magari alla radio o su YouTube. Io penso che il Festival sia stato così seguito per lo stesso motivo per cui molti politici di destra lo hanno bersagliato di critiche: si è trattata di una kermesse ad alto tasso di trasgressione, e provocazione.

Una precisione semantica, prima di tutto. Io utilizzo la parola “trasgressione” non nell’ormai consueta accezione mediatica nostrana, carica di allusioni e ammiccamenti sessuali. Per me trasgredire vuol dire deviare, consapevolmente, da una norma sociale consolidata; non a caso il verbo “trasgredire” viene dal latino e significa “andare al di là”. Quanto all’altra parola che uso, “provocazione”, voglio ricordare che si può provocare una rissa o una guerra, ma anche una discussione, un confronto (come nel caso del Festival).

Ora, io non penso che l’Italia sia un paese razzista, a differenza della nostra concittadina Paola Egonu: l’Italia è fatta dagli italiani, e ci sono tanti italiani sinceramente anti-razzisti. È vero però che in Italia ci sono molti razzisti. Troppi. La Egonu, prima in conferenza stampa e poi nel corso del suo accorato monologo-testimonianza, ha toccato un nervo scoperto del paese, e ha provocato una discussione quanto mai necessaria e urgente. Che poi sia difficile condurre una discussione del genere, a causa dello strepitare volgare di certi media e opinionisti di destra, è cosa diversa…

La richiesta dei cantanti Fedez e J-Ax alla Meloni di liberalizzare la cannabis ha scatenato un vespaio di polemiche, ma il tema della liberalizzazione della cannabis ha rilevanza globale, ne parlano fior di intellettuali e accademici, The Economist e il New York Times. In un paese come l’Italia, dove le mafie accumulano miliardi grazie al traffico e allo spaccio di droga, interrogarsi in modo serio sull’opportunità o meno di liberalizzare la cannabis (e se sì, con quali modalità? È vero che per le mafie la liberalizzazione sarebbe uno smacco?) dovrebbe essere una priorità. Purtroppo ancora una volta gli strilli isterici di una porzione del sistema mediatico e degli opinionisti ha impedito che la provocazione di Fedez e J-Ax stimolasse un dibattito prezioso.

Altro scandalo, la condotta del cantante Rosa Chemical, che in diretta ha mimato un rapporto sessuale e ha baciato sulla bocca, a lungo, il già menzionato Fedez. Ora, fermo restando che in TV, a quell’ora, ci si può imbattere in scene di gran lunga peggiori (e un giorno qualcuno mi spiegherà perché vedere sullo schermo la simulazione di un amplesso omosessuale sia più traumatico di vedere un omicidio truculento, o il pestaggio di una donna, o una rapina), Rosa Chemical inneggia al sesso e all’amore in un paese che con la sessualità ha ancora un rapporto complicato, e dove le persone omosessuali e transessuali subiscono ancora discriminazioni (per non parlare delle violenze di natura omofobica e transfobica di cui si legge spesso sulle pagine di cronaca nera).

Io non condivido minimamente molte strofe della canzone di Rosa Chemical, però l’artista torinese ha il merito di provocare una discussione su temi di grande rilievo sociale e culturale. I suoi gesti trasgressivi (esibire un giocattolo sessuale; mimare un amplesso; baciare un uomo sulla bocca) possono non piacere ad alcuni spettatori, tuttavia mettono il pubblico in contatto con problematiche e istanze affrontate poco e male dai media generalisti, e dalla politica.

Anche il monologo di Chiara Ferragni, pur non spiccando per profondità intellettuale, può contribuire ad alimentare il dibattito sulla diseguaglianza di genere in uno dei paesi europei più maschilisti. La Ferragni ha ragione: essere donna non è (e non deve essere) un limite. Ed è vero: se una donna nasconde il corpo viene spesso descritta come una suora, se lo mostra non pochi la bollano subito come una troia. Ovviamente l’influencer cremonese non è Simone de Beauvoir, e casomai bisognerebbe chiedersi perché nel Festival non c’è mai spazio per una storica, una sociologa, un’antropologa (e in ogni caso il problema non è che la Ferragni non è la de Beauvoir, ma che alle volte viene trattata come se lo fosse).

Detto questo, se le parole della Ferragni dicono poco o niente alle ragazze e alle donne che hanno letto la de Beauvoir, forse diranno qualcosa in più alle nostre concittadine che non hanno un dottorato o una laurea in studi di genere. L’emancipazione non deve riguardare solo le pochissime fortunate che, grazie a un contesto economico e familiare non comune, sono riuscite a raggiungere gli standard di vita e la sicurezza di norvegesi o australiane. E anche se le trasgressioni della Ferragni (come sfoggiare una collana a forma di utero) sono poca cosa a confronto di quelle del marito, c’è comunque il rischio che scuotano qualche coscienza.

Tutto bene, dunque? No. Perché affrontare temi come la liberalizzazione della cannabis, il razzismo, le discriminazioni contro donne e persone LGBTQ richiederebbe ben altro che un monologo o un bacio sulla bocca. Richiederebbe un dibattito maturo, razionale, serrato, a molteplici livelli. Ma questo passa il convento, signori miei. Se milioni di italiani apprezzano provocazioni e trasgressioni sanremesi, è perché la politica, la società, la cultura non affrontano questi temi. Oppure tendono ad affrontarli in modo saccente, con tutti i crismi della noia e della petulanza, perché i temi seri si affrontano annoiando a morte chi ascolta o legge, o “facendo la punta al ca**o”, per usare un’espressione greve ma efficace. O ancora, li riducono a oleografie.

A chi accusa il Festival di essere trash, non essendo un critico televisivo posso solo rispondere che spesso la provocazione, la trasgressione hanno in sé un elemento disturbante, che genera fastidio e fa aggrottare fronti. Chiunque provi anche solo a mettere in discussione gli equilibri e i rapporti di forza all’interno di una società viene spesso accusato di essere un maleducato, un ignorante, un  disturbatore (o molto peggio, se si vive in una dittatura). Ma poiché l’Italia è un’economia consumista, e nel consumismo tutto fa brodo, la marginalizzazione politica e culturale di un artista non si traduce necessariamente nella sua marginalizzazione economica.

Chi è soggetto alla piena marginalizzazione sono invece i “comuni” cittadini a cui la politica, la cultura, i media convenzionali non danno voce, o quasi. L’Italia è piena di donne stufe di maschilismi e paternalismi quotidiani, afroitaliani stanchi di essere trattati come cittadini di serie C, persone che vorrebbero vivere la loro sessualità senza ansie e preoccupazioni. Questi italiani sono milioni, e non apprezzano né il grigiore reazionario (e spesso di mera facciata) della destra nostrana, né le prediche insipide (e assai inefficaci) del centro(sinistra), né i prodotti culturali di maniera (siano essi romanzi, saggi, festival, dibattiti) che l’editoria e la TV progressisti ammanniscono, ben attenti a non irritare troppo la classe dirigente e i suoi araldi mediatici.

Nel torpore di un’Italia Biedermeier, dove si strepita se una giovane donna nera usa una generalizzazione di troppo (e le vili generalizzazioni quotidiane dei razzisti?), milioni di italiani e italiane vogliono gesti vivi. Trasgressivi. Provocatori. Preferiscono i graffi di verità imperfette, zoppe, agli anestetici del sistema politico-cultural-mediatico. L’editore, il politico, l’organizzatore di festival che lo capirà per primo farà soldi/voti/presenze a palate.

C’è più autenticità in un Festival attentamente coreografato, che in moltissime esternazioni di politici schierati “senza se e senza ma con la gente”, o in tante interventi di intellettuali che disquisiscono dottamente ma superfluamente, senza mettere in alcun modo in pericolo (anzi: contribuendo a consolidarli) i rapporti di forza all’interno della nostra società. Amadeus, senza avere un PhD, lo sa. E lo ha perfettamente compreso il Capo dello Stato, che da veterano della politica qual è, è consapevole delle difficoltà e dei crucci di milioni di concittadini.

 

 

 

Foto: Quirinale

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