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Ponti e attraversamenti: cosa ha da dire la diaspora ebraica ai migranti di oggi

5 Settembre 2015

«Ponti e attraversamenti», il tema della XVI edizione della Giornata europea della cultura ebraica che si svolge domenica 6 settembre, può essere l’occasione per riflettere sugli avvenimenti  di questi giorni a poca distanza da noi. A differenza della Giornata della Memoria, la Giornata della cultura ebraica, a vuole presentare le forme della cultura ebraica, la sua creatività, il suo secolare rapporto con l’esterno, i modi della sua integrazione. In breve una giornata in cui al centro c’è l’esperienza storica della Diaspora.

«Ponti e attraversamenti» è un titolo accattivante, anche efficace. Io lo trovo ambiguo: per questo stimolante. Diffido delle certezze, come delle culture che si propongono con un normario buono per tutti gli altri. Qualsiasi codice culturale di un gruppo è il risultato di un ibrido e da solo non è capace di presentarsi come universale. Al massimo può incorrere a comporne uno.

I ponti sono ambigui per due motivi: per ciò che significa praticare e proporre ponti e per il possibile effetto d’icona che quell’immagine ha assunto nel tempo.

I ponti uniscono o consentono contatti tra gruppi umani, o anche singoli, che hanno fatto di tutto per ignorarsi.
Il problema del ponte, tuttavia, è chi e che cosa si va cercare di là. Insomma si fa ponte e si costruiscono ponti verso qualcosa, e per andare da un’altra parte, a vedere che cosa c’è di là. Nel frattempo non mettiamo nel conto, o facciamo conto che non esista chi sta sotto, accanto, o che non ci interessa.

Il ponte è un’immagine affascinante, ma è “polisemica”, come tutte le cose. Consente di collegare, ma anche di escludere, continuando a non vedere, a non conoscere, a evitare. La metafora del ponte non è l’elogio della propria curiosità, o della propria apertura ma l’atto del riconoscere che la propria identità è plurima, composita e limitata. Per questo si fanno ponti: per saperne di più, per crescere.

Cosa meglio di un ponte può simboleggiare l’unione di ciò che è diviso? Tuttavia, non sempre quella figura descrive una condizione o il desiderio di coabitazione o d’incontro. Ponte è una parola polisemica, talora non senza ambiguità.

Consideriamo un ponte “reale”, forse quello simbolicamente più pregante nella storia recente di Europa: il ponte di Mostar, un luogo che è un simbolo della storia complicata, controversa e sanguinosa della Bosnia. L’esperienza di quel ponte è scandita dal ritmo delle rivolte e delle guerre. E’ una guerra che l’ha distrutto il 9 novembre 1993. La sua ricostruzione, undici anni dopo, non ha riaperto il dialogo.

Quello che la guerra ha distrutto non è il ponte fisico. È la possibilità di trovare un punto d’incontro. Lo stimolo a “conoscersi”, prima ancora di “fidarsi”, di “avere voglia”, di sentire “la curiosità” di parlarsi. Per concludere su questo punto: non è sufficiente l’esistenza di un ponte, o il suo ripristino, perché ciò si è interrotto riprenda il suo corso.

Il ponte è una pratica, non è uno strumento e non è nemmeno un prontuario. È un fare che nasce dalla scontentezza, dall’idea del proprio limite, dal sapere che da soli non ce la si farà.

Altrettanto ambigui sono  gli attraversamenti. Si attraversa qualcosa per giungere da un’altra parte e nel percorso si cambia, ci si carica di esperienze, si apprendono cose. Gli attraversamenti avvengono spesso in condizioni precarie, incerte e rischiose. Sono le scene che vediamo da anni davanti a noi e che molti vivono come intrusione e cui reagiscono con incertezza, talora con rabbia e con avversione. Dall’altra parte c’è altrettanto timore. Nelle migliaia di persone che in queste ore si sono messe in strada nel centro dell’Europa, c’è un attraversamento con  speranza. Non credo che sia privo di panico.

Altre volte, anche in tempi ravvicinati a noi, quelle sessa strade, quelle stesse linee ferroviarie sono state percorse dalla paura, dalla morte, dalla fuga. Hanno riguardato ebrei, sinti e rom, musulmani e indù negli anni ’40, popolazioni tedesche espulse violentemente dalle loro case tra il 1945 e il 1946, italiani in Istria.
Ogni volta muoversi voleva dire panico, smarrimento e, contemporaneamente reinvestimento altrove della propria vita. Più spesso quel reinvestimento si è risolto in terrore e morte com’è stato molte volte dall’inizio del Novecento: da ciò che accadde agli armeni nel 1915 in avanti.

Ma se l’esilio è stato dolore, esso è stato anche scommessa sul futuro, una scelta in cui si sono intrecciate molte emozioni, non ultima la possibilità di dare una diversa chance in un diverso luogo al proprio domani come ci ha invitato a riflettere lo storico Yerushalmi ripercorrendo la storia ebraica  come storia di diasporica. Vicenda che Yerushalmi invita a riconsiderare a partire dal significato stesso della parola “diaspora”.

Diaspora, dice Yerushalmi,  indica la dispersione o la disseminazione del corpo di un popolo rispetto alla sua terra di origine, la disseminazione di semi in agricoltura (da cui peraltro la parola etimologicamente proviene (dal greco sperirein), e con ciò pone il problema di un possibile impiantamento, radicamento e, dunque, eventualmente crescita.

Esilio è una condizione non felice. Ma è bene ricordare che essa può presentarsi come la risorsa, amara, per sfuggire a una condizione più infelice. «Si muta suolo – scrive Cicerone nel Pro Caecina – allorché ci si vuole sottrarre a una qualche pena o disgrazia, è per questo che si cambia sede e luogo».

L’esilio può essere una pena comminata. Talvolta è una scelta, un  modo per sottrarsi, per ritrovare o cercare un’altra libertà.

All’origine del vissuto esilico c’è la nostalgia, il languore, la depressione di essere “fuori luogo”. Ma c’è anche la sfida per riprendersi la propria vita. Per dire, in una condizione che nasce da una sconfitta o dalla propria debolezza: ricomincio da un’altra parte. Non è automatico. Dipende da come si attraversa il confine, da come si esce da casa propria, dove non si è più a casa, e dunque obbligati ad andarsene, per andare altrove.

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In copertina, Operazione Triton 2015, foto tratta dal sito dall’agenzia Frontex

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