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Non solo Suarez: l’italiano certificato e la cittadinanza
Ribadisco: non è un articolo su Suarez, e non è nemmeno un articolo sui requisiti per ottenere la cittadinanza italiana. Quello che qui conta è che, dal dicembre del 2018, l’ottenimento della cittadinanza italiana è subordinato “al possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue. A tal fine, i richiedenti….sono tenuti… a produrre apposita certificazione rilasciata da un ente certificatore riconosciuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale” (dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 9.1, novellato dall’art. 14 del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113). L’espressione chiave è “ente certificatore riconosciuto”: cerchiamo di capire perché questo può essere un problema, e cerchiamo di farlo attraverso un rapido esame comparativo.
Ogni Paese ha una politica linguistica e culturale all’estero, grande, media o piccina. I Paesi europei più attivi in questo senso sono, abbastanza ovviamente, la Germania, il Regno Unito, la Francia, la Spagna e l’Italia. Questi Paesi hanno approcci molto diversi alla questione, ma si assomigliano nel fatto di avere istituti culturali statali o finanziati dallo stato che sono attivi all’estero: Il Goethe, il British Council, l’Institut Français, il Cervantes, gli Istituti Italiani di Cultura. A loro volta, questi istituti sono assai diversi per strutture e funzionamento, ma hanno in comune quello di essere veicoli importanti per le certificazioni linguistiche. Semplificando all’osso, possiamo dire che il Goethe e il Cervantes hanno una loro certificazione (il Zertifikat e il DELE), che è nei fatti l’unica valida e riconosciuta nei Paesi di lingua tedesca o spagnola (o quasi). La Francia si muove su una certificazione unica di sviluppo ministeriale, il Delf/Dalf. Inglesi e americani giocano un campionato a parte, e si muovono più nell’ottica di test che di certificazioni: i più importanti sono l’Ielts, anglo-australiano, elaborato in sostanza dall’università di Cambridge e dallo stesso British Council, e il TOEFL, americano, ideato a Stanford e gestito da una società privata chiamata ETS. Nel nostro caso, invece, gli Istituti sono esclusivamente sedi di esame, l’elaborazione delle certificazioni non è centrale, e soprattutto c’è una pluralità di certificazioni riconosciute. Questo è abbastanza singolare se si pensa al volume tutto sommato contenuto del lavoro rispetto a tedeschi, francesi e spagnoli (gli anglosassoni, di nuovo, li teniamo da parte). Ma questo non sorprende del resto nessuno che conosca l’Italia e che sa quanto sia difficile mettere in discussione interessi preesistenti consolidati, spesso interessi locali, al fine di un interesse comune. Chi poi è del mestiere, sa benissimo che questa sovrabbondanza di certificazioni – per una lingua che, bene ricordarlo, è soprattutto una lingua di cultura e che quindi per definizione porta meno di altre alla richiesta di certificazioni – rispecchia il sistema pulviscolare di enti e associazioni – non statali, ma spesso finanziati dallo Stato – che all’estero operano nella promozione della lingua e della cultura italiane. Intendiamoci: è la solita vecchia storia del policentrismo italiano: ha numerosi difetti, in qualche caso dei pregi, di sicuro è un sistema che sopporta peggio di altri l’introduzione del “B1 cittadinanza”. Chi sono, quindi, gli enti certificatori riconosciuti? I più importanti per volume di attività sono le due Università per Stranieri, di Siena e di Perugia; vengono poi la Società Dante Alighieri e Roma Tre. Il problema del B1 cittadinanza qual è? Quello di dare un ruolo anagrafico, quando non consolare, a delle strutture che non sono attrezzate per questo. La certificazione è infatti, per tutti gli enti riconosciuti, soprattutto, e legittimamente, una fonte di entrate. Quando però subentra il discorso della cittadinanza entrano in ballo altri tipi di responsabilità, che noi che lavoriamo negli Istituti di Cultura conosciamo abbastanza bene non foss’altro perché siamo, di solito, l’ufficio culturale dei Consolati o delle Ambasciate, e quindi abbiamo una infarinatura sul tema che deriva da una lunga e continua frequentazione. Quali sono queste responsabilità? Sono quelle che derivano dal fatto che, quando siamo sede d’esame di un test che può decidere sul futuro della vita delle persone, non stiamo scherzando. Siamo un ufficio di Stato, e per noi il guadagno dalle certificazioni è di solito zero: tratteniamo una piccola percentuale dalle tasse di iscrizione all’esame, che impieghiamo per pagare un professore esterno, qualificato – attraverso un corso fatto dall’ente – a “somministrare”, verbo di rara e burocratica orrendezza, la prova in questione. Spesso, anzi, quei soldi non bastano nemmeno.
In concreto, vuol dire che se c’è una data di appello stabilita – sempre dall’ente certificatore, e secoli prima del coronavirus – per inizio giugno 2020, noi ci organizziamo in pieno lockdown, in accordo con la legislazione del Paese in cui siamo, per fare l’esame in presenza, perché altro modo non c’è. In concreto vuol dire che se un candidato si presenta per il B1 cittadinanza controlliamo quattro volte per vedere che la domanda sia formalmente corretta, e nelle formalità italiane è molto facile sbagliarsi. In concreto vuol dire, e mi è capitato, che se un candidato chiede un appello a parte perché quel giorno ha il figlio in ospedale, gli si deve rispondere che purtroppo non è possibile, perché non ne abbiamo materialmente il modo e sarebbe un danno per gli altri candidati. Non ricordo bene se quel candidato sia riuscito alla fine a presentarsi comunque o abbia passato l’esame alla tornata seguente. Spero in ogni caso che il suo processo di acquisizione della cittadinanza sia andato bene e che sia ora un italiano contento. Ma forse gli dovrei delle scuse, mi capitasse di incontrarlo.
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