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Nell’Industria 4.0 (e non solo) l’Italia punta sui robot

30 Novembre 2017

Per molte imprese manifatturiere italiane, l’orizzonte è quello dell’Industria 4.0, concetto nato in terra tedesca qualche anno fa e ormai ben radicato nel nostro paese. E Industria 4.0 vuol dire, in primis, robot. L’Italia è uno dei principali produttori mondiali di macchine utensili; in base alle graduatorie 2015 fornite da UCIMU – Sistemi per produrre, siamo al quarto posto nel mondo quanto a produzione, dopo Cina, Giappone e Germania, e sesti quanto a consumo. Ancora, siamo terzi per export, dopo tedeschi e nipponici, precedendo potenze e superpotenze economiche come Taiwan, Cina, Svizzera e Corea del Sud (che pure si è conquistata la nomea di “paese più robotizzato del mondo”).

Lo conferma anche l’International Federation of Robotics, organizzazione con sede in quel di Francoforte sul Meno: in un mondo dove si producono, e comprano, sempre più robot, l’Italia è il secondo mercato d’Europa, dopo la Germania (e prima di Francia, Spagna, Regno Unito ecc…). Certo, non brilliamo quanto a densità robotica, ossia il numero di robot industriali multiuso: qui ci battono non soltanto le principali potenze economiche dell’Estremo Oriente, la Germania e gli Stati Uniti, ma la Svezia, la Danimarca, il Belgio.

«In Scandinavia, dove pure il modello è molto attento ai lavoratori, hanno capito che i robot fanno bene alla produttività, ai bilanci e anche all’occupazione – dice a Gli Stati Generali un industriale italiano che fa la spola tra il Nordest e i paesi nordici –. Da noi lo Stato si è mosso, per fortuna, ma altri attori chiave no, non hanno ancora capito il cambiamento profondo che il manifatturiero globale sta vivendo».

Con i suoi eccellenti dipartimenti universitari di robotica, startup di successo specializzate nei cosiddetti cobot e una nazione abituata a fare una vera politica industriale, la piccola Danimarca – paese votato all’agricoltura, ai commerci e ai servizi – è la prova che il nuovo manifatturiero può attecchire anche in paesi tradizionalmente ai margini dello scacchiere industriale globale. E del resto è vero che i robot non mettono necessariamente in pericolo i posti di lavoro.

Ad esempio i cobot, ossia i robot collaborativi, funzionano bene soltanto se affiancati da tecnici e ingegneri umani, in grado di guidarli e valorizzarli. Negli ultimi anni, del resto, sembra che la crescente automatizzazione del comparto automobilistico negli USA e in Germania abbia generato nuova occupazione, non meno. E un approfondito studio del 2016 del Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (ZEW) di Mannheim e dell’Università di Utrecht confermerebbe che l’automazione ha avuto, nel complesso, un effetto positivo sull’occupazione europea.

In Italia, in ogni caso, le cose iniziano davvero a muoversi in fretta, grazie anche (ma non solo) al sostegno statale. Cruciale, in ogni caso, il ruolo di altri componenti dell’ecosistema dell’innovazione italiano, a partire dall’università. Marcello Chiaberge, ingegnere elettronico, è referente dell’Interdepartmental Centre for Service Robotics del Politecnico di Torino; a Gli Stati Generali spiega: «L’Italia è senza dubbio un grande bacino di produttori di tecnologie robotiche, lo è meno quanto a utilizzatori. Tranne che, ovviamente, in grandi stabilimenti o impianti di produzione».

Quanto a penetrazione di queste tecnologie, nota Chiaberge, spiccano la manifattura di alto livello e l’industria pesante. Ma il tessuto produttivo italiano è composto da una galassia di PMI, dove il processo di robotizzazione è ancora in divenire. Il cambiamento, d’altro canto, deve essere non solo produttivo e tecnico, ma culturale. «Nell’immaginario collettivo quando si dice robotica si pensa subito al braccio manipolatore classico delle linee di montaggio di vetture, ad esempio. Ma bisogna sfatare questa visione! Alla fine i robot presenti nelle aziende sono anche di altro tipo: qualunque sistema di movimentazione, di supporto, può essere visto come un robot a sostegno della produzione».

E non c’è solo la robotica industriale, ma anche quella di servizio. Di cui si occupa proprio il centro interdipartimentale dove lavora Chiaberge. «Questo tipo di robotica, che va molto forte negli USA e in tutta Europa, ha come fine ultimo quello di erogare un servizio e svolgere una funzione, indipendentemente dalla forma e dalla configurazione dell’agente robotico che la svolge. I settori di riferimento sono quattro: l’agricoltura di precisione; le smart city e tutte le tematiche di sicurezza, ricerca, monitoraggio; la cosiddetta “cultural heritage”; e poi il supporto alla vita, per persone diversamente abili o anziane».

Manolo Garabini è ricercatore di robotica, e uno dei fondatori di qbrobotics, nata nel 2011 come spin-off dell’Università di Pisa e dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Oggi è una startup innovativa di riferimento nel suo settore, con un fatturato che nel 2015 ha superato il mezzo milione di euro. «I settori in cui operiamo sono essenzialmente due: la robotica di servizio e i robot umanoidi, e il settore dell’automazione industriale, come fornitori di end-effector per robot collaborativi» spiega Garabini.

L’azienda ha sede al Polo tecnologico di Navacchio, in quel di Pisa; dà lavoro a 10 dipendenti, e collabora con centri tecno-scientifici all’avanguardia in Italia e nel mondo (da Stanford alla Mayo Clinic, dall’EPFL alla società Fraunhofer). Si pone obiettivi ambiziosi: attualmente è coinvolta pure nello sviluppo di soluzioni innovative per la realizzazione di arti artificiali, in particolare mano e braccio.

Secondo Garabini, l’automazione è fondamentale per il futuro dell’economia italiana. «Solo un’automazione industriale di altissimo livello potrà mantenere competitivo il manifatturiero del nostro paese. Essa permetterà di livellare il costo della forza lavoro, e porterà maggiore libertà di scelta nella localizzazione degli stabilimenti produttivi. Per l’Italia questo potrebbe significare la possibilità di riportare all’interno dei nostri confini attività che allo stato attuale sono eseguite altrove». In questo modo i robot, pur non pagando le tasse (contrariamente a quanto ha di recente auspicato Bill Gates) potrebbero rilanciare in modo decisivo non solo la fabbrica Italia, ma tutto il sistema-paese.

 

 

 

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